“Metlicovitz. L’arte del desiderio”: la mostra triestina sul grande illustratore e cartellonista pioniere della pubblicità

Fino al 17 marzo 2019, in occasione del 150° anniversario della nascita di Leopoldo Metlicovitz, Trieste dedica una grande mostra a questo suo eccezionale figlio, come già nel 2002-2003 ha fatto col suo (più noto) allievo, collega e amico, nonché rivale, Marcello Dudovich.

La retrospettiva “Metlicovitz. L’arte del desiderio”, allestita in due importanti spazi museali della città poco distanti l’uno dall’altro, il Civico Museo Revoltella ed il Civico Museo Teatrale “Carlo Schmidl” di Palazzo Gopcevich, offre lo spunto per conoscere meglio uno dei pionieri dell’arte della pubblica affissione in Italia, presentando più di settanta grandi manifesti del laborioso illustratore, cartellonista e pittore triestino, ma anche decine di suoi spartiti musicali, cartoline, copertine di riviste e dipinti.

In aprile la mostra si sposterà a Treviso, per la precisione al Museo Nazionale Collezione Salce, cioè proprio il luogo da cui provengono moltissimi dei manifesti esposti.

La rassegna è curata dallo scrittore e critico d’arte triestino Roberto Curci, che nel 2002-2003 si è già occupato della mostra dedicata a Marcello Dudovich.

Per quanto mi riguarda, per motivi logistici ho visitato prima la sezione del Civico Museo Teatrale “Carlo Schmidl” di Palazzo Gopcevich, dove sono esposti i manifesti e i numerosi esempi di “grafica minore” della significativa produzione di Metlicovitz per l’opera e l’operetta; solo in seguito ho raggiunto il Civico Museo Revoltella, dove è allestito il grosso della mostra.

All’interno dei due spazi museali si possono scattare fotografie (evitando l’utilizzo del flash): non si tratta di una notizia di poco conto, considerato il rigore degli ultimi tempi di alcune sedi espositive italiane.

Il bookshop dei due musei è comunque piuttosto fornito e il catalogo della mostra (ad opera della Lineadacqua Edizioni Eventi) è esaustivo e davvero ben fatto.

Il termine “cartellonismo” non si trova nei dizionari, ma viene più che altro utilizzato da addetti al settore e appassionati per indicare l’arte pubblicitaria, che nasce alla fine dell’Ottocento con la seconda rivoluzione industriale e l’avvio della produzione in serie, conosce un grande successo con la Belle Époque e con le Avanguardie (soprattutto col Futurismo) e termina un secolo dopo, con l’avvento televisivo del Carosello (che purtroppo si esaurirà in un paio di decenni).

Agli albori dunque la pubblicità è arte.

La réclame mira a proporre i prodotti più disparati alle masse: la comunicazione diviene fondamentale, dapprima tramite le rappresentazioni pittoriche sui muri dei palazzi e le prime inserzioni in bianco e nero sui giornali; in seguito, anche per mezzo dei grandi e più costosi manifesti a colori, gli “avvisi figurati”.

Il tanto osannato “made in Italy” di oggi ha radici profonde e già nel periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento è chiaro quanto sia fondamentale attirare l’attenzione dei possibili consumatori sul prodotto reclamizzato e quali siano i requisiti che un efficace messaggio pubblicitario deve possedere.

Che si pubblicizzino articoli di vestiario o prodotti di bellezza, pneumatici o stufe, il segreto del successo e della grazia che ancora oggi ammiriamo in affiches e manifesti di un secolo fa sta nell’accuratezza dei soggetti rappresentati e negli slogan e nell’ironia di alcune illustrazioni. Ma soprattutto nella bravura e nell’intelligenza dei cartellonisti, gli operatori di questo settore, nel saper trasformare la mera comunicazione del consumo in una vera e propria forma d’arte, non meno importante delle sorelle più tradizionali e celebri: il messaggio deve risultare forte e i colori devono spiazzare, ma con eleganza e ironia.

Non esattamente ciò che accade oggi, insomma, perlomeno nella maggior parte dei casi.

Non si può parlare di cartellonismo italiano e di Leopoldo Metlicovitz senza dedicare qualche riga alle Officine Grafiche Ricordi di Milano, la grande casa editrice italiana di edizioni musicali fondata nel 1808 (in seguito anche casa discografica) e tuttora esistente.

L’impresa milanese di Casa Ricordi inizialmente si distingue a livello internazionale nell’ambito dell’editoria musicale, ma alla fine del XIX secolo apre la strada alla nascita dell’arte pubblicitaria, partorendo la prima generazione di quelli che diventeranno i grandi cartellonisti italiani, nonché i pionieri dell’arte del manifesto: Leopoldo Metlicovitz, Marcello Dudovich, Giovanni Maria Mataloni, Achille Luciano Mauzan, Leonetto Cappiello, Giovanni Beltrami, Aleardo Villa, Plinio Codognato, Aleardo Terzi, Achille Beltrame, Luigi Emilio Caldanzano, Enrico Sacchetti, Gian Emilio Malerba, Giuseppe Palanti e altri.

In particolare i due triestini Leopoldo Metlicovitz e Marcello Dudovich, assieme ai “forestieri” Adolf Hohenstein e Franz Laskoff, daranno un contributo fondamentale alla nascita del cartellonismo italiano, per la loro modernità e per la quantità di materiale prodotto.

Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento la Ricordi è una delle poche case editrici al mondo in grado di produrre manifesti di grandi dimensioni, per i quali riceve commissioni persino dall’America.

Grazie alle grandi macchine litografiche e a diverse varietà di torchi, nelle officine della grande casa editrice non si stampano più solo le piccole edizioni musicali (celebri per le meravigliose copertine), ma anche i cartelloni per le rappresentazioni teatrali o i film in uscita (come “Cabiria”) e i manifesti pubblicitari per l’acqua Uliveto, il Bitter Campari, la birra Poretti, le biciclette Bianchi, i grandi magazzini La Rinascente di Milano e Mele di Napoli, il quotidiano “Corriere della Sera” e così via.

Leopoldo Metlicovich nasce a Trieste il 17 luglio del 1868 (non si sa quando e perché la desinenza del cognome sia stata modificata).

Dopo l’apprendistato come litografo in uno stabilimento tipolitografico di Udine, nel 1888 si trasferisce a Milano e per un breve periodo lavora alla Ditta dei Fratelli Tensi, una “Fabbrica di Carte e Lastre per Fotografia e Radiofotografia”.

A Milano e dintorni Metlicovitz farà fortuna e trascorrerà il resto della propria vita, soprattutto in virtù dell’affetto e dell’ammirazione che per lui ha fin da subito Giulio Ricordi, che diviene il suo protettore e quasi un secondo padre. La leggenda vuole che Ricordi abbia notato il timido ma abilissimo litografo proprio durante l’apprendistato a Udine e l’abbia prontamente invitato a Milano.

Fatto sta che in questo periodo il giovane Metlicovitz viene assunto come litografo cromista alle Officine Grafiche Ricordi e che nel 1892 ne diventa il direttore tecnico.

Il suo apprendistato di tipo tecnico fa sì che fin da giovane Metlicovitz abbia occhio e manualità: è pignolo, è un artigiano, ha una mano eccezionale, è attento ed esperto nelle lavorazioni con le lastre.

Dal 1897 circa Metlicovitz, che ha iniziato come riproduttore tecnico delle opere degli altri illustratori, inizia finalmente ad ideare e realizzare dei manifesti egli stesso.

In questo periodo tra l’altro approda alle Officine Grafiche Ricordi anche Marcello Dudovich, amico di famiglia, a cui inizialmente Leopoldo Metlicovitz farà da “maestro”. E purtroppo per “Poldo”, il suo nome da questo momento sarà per sempre legato a quello di “Dudo”, il concittadino che arriva in ditta a fargli da allievo, ma che poi supererà il maestro e diverrà molto più celebre di lui.

Se infatti Metlicovitz è serio, saggio, ligio alle regole e alle direttive dello stile di Casa Ricordi, Dudovich è spregiudicato, vivace, fantasioso, innovativo, ribelle. Metlicovitz lavora in modo impeccabile, formalmente perfetto; Dudovich semplicemente osa. Metlicovitz è sedentario, tutto casa/lavoro/chiesa, nonché innamoratissimo della propria moglie, Elvira, e dei propri figli; Dudovich è un donnaiolo mondano e ateo.

Metlicovitz, chiuso nel proprio studio e tra i propri affetti, per tutta la vita preserverà l’unità creativa tanto cara a Giulio Ricordi, il suo protettore, che vuole che lo stile di Casa Ricordi sia riconoscibile e rassicurante. Ma questo influirà negativamente sulla carriera di Leopoldo Metlicovitz, mai decollata veramente.

Metlicovitz è timido ed umile addirittura nel firmare le proprie opere: la sua sigla, lo stilizzato monogramma LM, a volte è addirittura assente e ancora oggi ciò causa non pochi problemi a chi cerchi di attribuire la paternità dei vari manifesti di Casa Ricordi (e non solo) di quegli anni.

Anche questo farà sì che la carriera di Metlicovitz sia meno brillante di quella del concittadino Dudovich.

I primi lavori di Leopoldo Metlicovitz sono stilizzati e timidi quanto il proprio autore e rispettano le regole di Casa Ricordi, oltre che i canoni della réclame ottocentesca: l’influenza di Aleardo Villa è forte in uno dei primi manifesti di Metlicovitz, quello del 1898 per il ricostituente Pitiecor, “salute e delizia dei bambini” ma “ricostituente anche per gli adulti”, in cui una bambina in punta di piedi e con un cucchiaio in mano cerca di raggiungere la sommità di una grande bottiglia verde contenente il famigerato composto di olio di fegato di merluzzo e catrame.

Un manifesto degli ultimi anni dell’Ottocento che introduce una delle più grosse critiche che per tutta la carriera verrà rivolta allo stile di Metlicovitz (come al solito contrapposto a quello di Dudovich), cioè la mancanza di eros e sensualità nelle figure femminili da lui rappresentate, algide anche se nude, è quello per il profumo Fleurs de Mousse dei Sauzé Frères di Parigi, in cui una donna nuda siede tra fiori e farfalle con un’ampolla tra le mani.

I critici si sprecano a cercare i difetti nelle opere e nello stile di Leopoldo Metlicovitz, ma in alcuni casi devono ricredersi. Ciò accade ad esempio per il manifesto creato nel 1909-1910 per “L’Ora”, il quotidiano di Palermo (non presente alla mostra di Trieste): qui la figura femminile dalla chioma rossa ritratta da Metlicovitz (probabilmente sua moglie Elvira, modella prediletta) è molto sensuale e realistica e spiccano le forme morbide del suo corpo, il suo sguardo languido, i colori stupendi del cartellone.

Una felice eccezione degli ultimi anni dell’Ottocento che piace parecchio ai critici è invece il manifesto che Metlicovitz appronta per il quotidiano “La Sera” nel 1898, in cui una ragazzina vende il giornale ai passanti: la figurina malinconica e rossa (che sembra quasi la piccola fiammiferaia della fiaba di Hans Christian Andersen) contrasta con il nero compatto degli eleganti signori seduti al caffè alle sue spalle.

Ciò che colpisce però non è tanto il contrasto tra i colori, quanto quello tra le diverse classi sociali rappresentate: un tema che sarà sempre caro a Metlicovitz, forse più attento di altri cartellonisti alla centralità della figura umana all’interno del manifesto e non solo al prodotto reclamizzato.

Metlicovitz ha infatti la grande capacità di mettersi nei panni dei soggetti raffigurati, ma solo se si riconosce nella classe sociale a cui appartengono (altra critica che spesso gli verrà rivolta): ed egli puntualmente simpatizza per i personaggi più umili, poveri e sfortunati.

Linee stilizzate a parte, Metlicovitz in questo periodo (seppur timidamente) inizia ad inserire degli elementi Liberty nelle proprie opere.

Questo è piuttosto evidente nei calendari e nelle tabelle pubblicitarie che reclamizzano la protezione offerta da alcune società di mutuo soccorso e di assicurazione, indirizzata agli agricoltori minacciati dal rischio dei danni da grandine.

La polizza agricola in questa tabella pubblicitaria del 1899 è reclamizzata per mezzo di una donna seduta su una panca tra rami di alloro e un fascio di grano; sullo sfondo, il palazzo sede della Nuova Milano.

In questo calendario dell’anno 1900 una figura femminile alata sparge fogli su un campo di grano.

In questo ultimo calendario del 1902 invece una figura femminile incoronata è appoggiata ad un globo terrestre e si circonda di spighe; sullo sfondo, il Duomo di Milano.

Il passaggio dall’illuminazione a gas a quella elettrica (sia nel pubblico che nel privato) è un evento fondamentale del periodo a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento e la lampadina a bulbo diventa un simbolo della modernità quanto l’automobile e la macchina a vapore.

Negli ultimi anni dell’Ottocento però le Officine Grafiche Ricordi si occupano ancora dell’illuminazione a gas ed è questo nel 1895 il soggetto del primo vero manifesto italiano, ad opera di Giovanni Maria Mataloni.

Metlicovitz nel 1899 si distingue col manifesto per le Distillerie Italiane, considerato da molti il suo primo cartellone di grande impatto, andando oltre il proprio stile ancora incerto tra il rigore dell’Ottocento e il Liberty e creando invece un interessante connubio tra le decorazioni dello stile floreale, il simbolismo pittorico e l’utilizzo dell’allegoria. Il rosso dei serpenti delle fiamme tra l’altro lo ritroveremo nel famoso manifesto realizzato da Metlicovitz per il lancio del kolossal “Cabiria”.

Qualche anno più tardi comunque l’illustratore triestino rappresenterà anche la lampadina a incandescenza in un altro colorato manifesto per la Tantal Lampe, in cui una figura femminile dalla chioma rossa e vestita di un peplo verde (personificazione della notte) viene abbagliata dalla luce della lampadina.

La progressiva maturazione dello stile di Leopoldo Metlicovitz e la sua ricerca di una maggiore modernità rispetto alle illustrazioni degli esordi si evincono nella sequenza di manifesti creati dal 1890 circa in poi per le campagne pubblicitarie dei Grandi Magazzini Italiani E. & A. Mele & C. di Napoli, a cui in quegli anni lavorano praticamente tutti gli illustratori della Ricordi.

Questa per me rappresenta una delle sezioni più belle della mostra, a causa della mia passione per la moda femminile del periodo a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento e di conseguenza per lo stile prima vittoriano e poi edoardiano degli abiti riprodotti.

La ricercatezza dei particolari dei vestiti, delle acconciature, delle calzature e degli accessori, oltre alla finezza e all’eleganza delle donne raffigurate, mi entusiasmano quanto un ritratto di Giovanni Boldini, uno dei miei pittori preferiti della Belle Époque.

Mi sembra di conseguenza doveroso approfondire il singolare fenomeno della centralità della Napoli di un secolo fa, vera e propria anticipatrice di tendenze, e il fondamentale ruolo ricoperto dai Grandi Magazzini Mele.

Sulla scia del londinese Harrods (attivo dal 1849) e del parigino Le Bon Marché (aperto nel 1858), in Italia la formula della grande distribuzione arriva a Milano nel 1877 col primo grande magazzino italiano, Alle città d’Italia (da cui è nata La Rinascente), dei fratelli Luigi e Ferdinando Bocconi, e prosegue a Napoli grazie ai facoltosi fratelli Mele, che nel 1889 inaugurano un grande spazio di due piani e duemila metri quadri all’angolo tra via San Carlo e via Municipio, nel nuovo Palazzo della Borghesia. La società purtroppo chiuderà i battenti già nel settembre del 1932.

Durante la loro breve vita, i Grandi Magazzini Mele di Napoli, chiamati anche Magazzini Italiani, negli anni a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento esprimono il gusto Liberty della Belle Époque ed operano all’insegna dei motti “Massimo buon mercato” e “Mode novità”.

Nel propagandare le novità della moda, gli ultimi arrivi di stagione, gli abiti da signora e da uomo, ma anche i vestitini per bambini, gli accessori, le stoffe e le confezioni, il negozio napoletano offre non solo grande varietà ed assortimento “a buon mercato”, ma promette soprattutto eleganza e buon gusto.

A differenza dei grandi magazzini milanesi, quelli napoletani infatti vantano un’offerta ampia e meno elitaria e non vi si trovano solo capi d’abbigliamento, ma anche cosmetici, prodotti per l’igiene personale, elementi per l’arredo delle case.

Ma il grande ed immediato successo è da ricercarsi anche nella cura con cui vengono allestite vetrine ed esposizioni interne; nella trovata di posizionare degli uscieri “esotici”, cioè mori, all’ingresso del negozio (“o turco napulitano”); come nella scelta di avvalersi di importanti illustratori dell’epoca (Leopoldo Metlicovitz e Marcello Dudovich, ma anche Gian Emilio Malerba ed Achille Beltrame) per la realizzazione di annunci sui giornali, cartoline, modernissimi cataloghi di vendita per corrispondenza (spediti ogni anno a migliaia di indirizzi in tutta Italia), calendari e soprattutto manifesti pubblicitari.

Manifesti che sono delle vere e proprie opere d’arte, su cui puntualmente campeggia il già citato slogan della ditta: “Massimo buon mercato”. E i prezzi proposti da Emiddio e Alfonso Mele mantengono davvero le promesse e non si rivelano proibitivi come quelli dei grandi magazzini di Milano, Londra e Parigi.

Particolare non da poco, i due fratelli napoletani non sono votati solo al semplice profitto, ma al contrario si rivelano imprenditori intelligenti e attentissimi ai valori umani: i loro dipendenti hanno diritto (gratuitamente) ad un medico a domicilio quando sono in malattia, alla cassa di mutuo soccorso e addirittura all’accesso ad alcuni stabilimenti balneari nel periodo estivo.

Veniamo dunque ai cartelloni di Leopoldo Metlicovitz, che sono uno più meraviglioso dell’altro. Come accadrà spesso lungo tutto il percorso espositivo, ci si riscopre ad ammirare delle immagini già viste in passato, ma mai collegate al nome dell’artista triestino.

Le donne di Metlicovitz sono puntualmente belle, eleganti e conturbanti, accattivanti ma mai volgari; i colori utilizzati dal cartellonista sono sgargianti o tenui, a seconda del capo d’abbigliamento e dell’occasione riprodotti.

Nelle splendide cromolitografie su carta esposte, che raggiungono dimensioni spettacolari (a volte addirittura i tre metri per due), si riaffaccia però il vizio di Metlicovitz di non immedesimarsi troppo nei personaggi da lui rappresentati se questi appartengono all’alta borghesia, invece che al popolo (come la piccola venditrice di giornali del già analizzato manifesto de “La Sera”).

I manifesti degli esordi di Leopoldo Metlicovitz tradiscono ancora l’influenza di Aleardo Villa, come si è già visto. Uno di questi è il bellissimo cartellone che reclamizza “ombrellini d’ogni specie”.

Dopo una felicissima parentesi bolognese, nel 1906 Marcello Dudovich riprende a lavorare per le Officine Grafiche Ricordi e da questo momento in poi tra i due triestini sarà confronto/scontro anche sulla realizzazione della réclame per i grandi magazzini napoletani. Metlicovitz lavora come non mai, certo, e sono di questo periodo alcune delle sue opere più celebri, come vedremo, ma è Dudovich ormai la punta di diamante di Casa Ricordi.

Nei manifesti di Metlicovitz degli anni successivi è impossibile non riconoscere nelle varie figure femminili ritratte i lineamenti, l’eleganza e la chioma rossa della bellissima e adorata moglie Elvira.

Lo stile di Metlicovitz in generale rimane ancorato alle regole tipicamente ottocentesche e i suoi cartelloni sono aneddotici, molto pittorici: insomma, come dei manifesti moderni non dovrebbero essere. Ogni tanto però si respira anche qui il “piccolo Liberty” (com’è stato definito) di altre sue opere.

I modelli degli abiti sono rappresentati nei minimi particolari: si tratta proprio dei vestiti che poi le signore potranno ammirare anche sui cataloghi per corrispondenza e all’interno del grande negozio di Napoli.

Anche le “confezioni per uomo” sono reclamizzate e se ne sottolinea l'”eleganza insuperabile”.

In due manifesti dedicati alla moda per bambini, si nota l’evoluzione dello stile di Metlicovitz da un’opera del 1899 ad una del 1908.

Dopo questa profusione di donne bellissime, è il caso di soffermarsi sul già citato grande rimprovero che all’unanimità i critici d’arte rivolgono a Leopoldo Metlicovitz: l’assenza dell’eros nelle sue opere. Difetto che farà sì che la carriera di Metlicovitz non decolli mai sul serio.

Per molti infatti il suo stile è piatto, morigerato e pudico e le sue figure femminili mancano di sensualità. Naturalmente di Dudovich e delle sue donne si dice l’esatto opposto, cioè di come siano erotiche anche da vestite.

I nudi di donna nelle opere di Metlicovitz sarebbero rari e castissimi, per i critici, anche se a volte l’illustratore si concede qualche trasparenza.

A questo proposito Vittoria Crespi Morbio ha scritto che Metlicovitz “non conosce l’erotismo, la sensualità, il gioco della seduzione: non si abbandona all’imprevedibilità del rischio di un’avventura galante”.

I manifesti che Metlicovitz sforna tra il 1908 e il 1910 invece secondo me hanno come protagoniste delle donne decisamente sensuali.

Ad esempio la figura femminile di Flouvella, un profumo dei Sauzé Frères, mi sembra tutto tranne che pudica e algida e le sue magnifiche forme sono ancora più accattivanti grazie al gioco di trasparenze dato dalla impalpabile veste che indossa.

Un’altra bellissima donna molto sensuale è protagonista del celebre cartellone di Metlicovitz per l’ennesimo profumo dei Sauzé Frères, Liane Fleurie, utilizzato per la locandina della mostra di Trieste e per la copertina del meraviglioso catalogo.

E cosa dire di questo ammiccante manifesto che reclamizza dei “salvatacchi”, per mostrare i quali la donna ritratta solleva uno dei piedi, facendoci intravedere addirittura la sottogonna?

Un’altra grossa critica che viene mossa a Leopoldo Metlicovitz è l’esagerata possanza fisica dei suoi corpi in alcuni manifesti prodotti negli anni che vanno dal 1905 al 1911: i richiami a Michelangelo e ai corpi torniti e plastici della Cappella Sistina si sprecano.

Il cartellone di Metlicovitz continua a non rispecchiare le caratteristiche che dovrebbe avere il manifesto moderno secondo gli studiosi che si sono occupati della questione, primo tra tutti lo scrittore e critico d’arte Vittorio Pica.

Il manifesto dovrebbe spiazzare con un certo messaggio dato da un disegno sintetico e da pochi colori, magari in forte contrasto tra loro: il passante spesso vede la réclame di sfuggita, non coglie (non può farlo) i particolari perché è di fretta.

Invece il manifesto di Metlicovitz è spesso un vero e proprio quadro, ricco di chiaroscuri, ombreggiature, sfumature eleganti: la sua è una rappresentazione pittorica della figura umana. E questo non deve stupirci, perché – come vedremo – la pittura è ciò a cui Metlicovitz anelerà per tutta la vita.

Questi stessi manifesti sono criticati anche per la già analizzata questione di come Metlicovitz non voglia identificarsi nei protagonisti delle proprie opere, a meno che questi non appartengano al popolo. In questo caso però l’illustratore triestino non si cala nei personaggi raffigurati semplicemente perché si tratta per lo più di réclame di eventi pubblici o con finalità patriottiche e che spesso vedono protagonista una figura mitologica o allegorica.

Ad anticipare la tendenza della profusione di corpi nudi maschili muscolosi e plastici nei manifesti, è il celebre cartellone per l’inaugurazione del Traforo del Sempione, scelto per l’Esposizione Internazionale di Milano del 1906, che vedremo in seguito.

Significativi sono poi i manifesti per la Mostra del ciclo e dell’automobile di Milano.

In quello del 1905 un uomo nudo su un’automobile porta una corona di fiori; sulla sua figura incombono delle nubi.

In quello del 1907 i protagonisti sono dei piloti su un’auto rossa e l’uomo alato e nudo che li “scorta”.

Se gli uomini di Metlicovitz sono muscolosi e non fanno trasparire i propri sentimenti, nel manifesto dedicato al varo alla Spezia della “regia nave” Roma la sirena dalla rossa chioma che tiene tra le mani una ghirlanda con la scritta S.P.Q.R. e apre la via all’imbarcazione è considerata dai critici ancora una volta glaciale e priva di sensualità, nonostante il corpo sia nudo e le forme morbide e perfette.

Metlicovitz peccherebbe pure di retorica ed esaltazione patriottica nel manifesto dedicato all’Esposizione Internazionale di Torino del 1911, dove – tra i corpi nudi – campeggia il tricolore: in quest’anno infatti l’Italia affronta la guerra italo-turca per il possesso coloniale della Libia.

Si tratta tra l’altro di un’anticipazione di ciò che alla fine del 1918 troveremo in una cartolina-locandina patriottica intitolata “Finalmente!” e dedicata alla Redenzione di Trento (vestita di blu) e Trieste (in rosso), che tornano all’Italia, la Madrepatria incoronata e vestita di bianco.

Torniamo nuovamente indietro di qualche anno per analizzare un altro fondamentale aspetto del lavoro di Metlicovitz: la sua grandissima produzione per l’opera e l’operetta, ben rappresentata a Palazzo Gopcevich.

Al Civico Museo Teatrale “Carlo Schmidl” è esposta una foto di gruppo dell’anno 1900 che è davvero significativa per Metlicovitz: tra le figure catturate dallo scatto, al centro, seduto, è riconoscibilissimo Giuseppe Verdi, anche se anziano e smagrito. Ma sulla destra della foto, scattata nella tenuta di Sant’Agata di Verdi (a Piacenza), sono riconoscibili anche Giulio Ricordi e la moglie e un giovane (poco più che trentenne) Metlicovitz, l’ultima figura a destra.

Questo invito del grande compositore (che morirà pochi mesi dopo lo scatto) presso la propria tenuta si trasformerà in un incarico importante per il giovane protetto di Giulio Ricordi, che è umile, discreto e affidabile proprio come piace all’editore milanese.

Verdi, abitualmente schivo e riservato, concede infatti a Metlicovitz di immortalarlo in una serie di acquerelli (che in seguito diverranno una pochette di cartoline) in cui è immerso in scene di vita domestica e bucolica e che probabilmente vengono creati sulla base di alcune fotografie che Metlicovitz in precedenza ha scattato all’anziano compositore.

Grazie a questo incarico Metlicovitz diviene l’erede ufficiale del direttore artistico Adolf Hohenstein alle Officine Grafiche Ricordi, nonché il responsabile dei rapporti con Giuseppe Verdi, fino a quando il Maestro è in vita. Il fatto che Hohenstein voglia tornare a vivere in Germania, tra l’altro, lascia ulteriore spazio a Metlicovitz.

Giulio Ricordi è un melomane e pure un compositore non troppo in incognito: grazie a lui – come abbiamo appena visto – Metlicovitz conosce Giuseppe Verdi, ma anche Giacomo Puccini e molti altri grandi nomi di questo ambiente. Metlicovitz ha di conseguenza l’onore di pubblicizzare per Casa Ricordi il debutto di opere della lirica poi divenute veri e propri miti, di Giuseppe Verdi e Giacomo Puccini, ma anche di Pietro Mascagni, Riccardo Zandonai e così via, per mezzo di manifesti più o meno grandi, ma anche tramite numerosi esempi di “arte minore”, come le copertine delle riviste musicali e di teatro o le cartoline.

Alcuni dei manifesti di Metlicovitz, primo tra tutti quello per la “Madama Butterfly” di Puccini, sono celeberrimi. Anche se – ancora una volta – il visitatore è consapevole di aver visto tante volte questi cartelloni, ma di non aver mai afferrato il nome del loro autore.

Per quanto riguarda la lirica, tra i manifesti piccoli (70x50cm circa) un esempio è quello di “Iris”, l’opera simbolista di Pietro Mascagni che nel 1898 lancia la moda dell’esotismo nippofilo, portato agli estremi dalla “Madama Butterfly” di Giacomo Puccini.

Il bel volto di Iris è assorto e malinconico, quasi rassegnato, come se la fanciulla conoscesse il proprio destino.

Iris, ingenua e semplice ragazza, rapita da un nobile, esposta in una casa di piacere, maledetta dal padre (vittima di un equivoco), alla fine si getta, per la vergogna, in un baratro, per morire – baciata dal sole – e venire quindi trasformata nel fiore di cui in vita ha portato il nome.

Per quanto riguarda lo stile, il manifesto è una sintesi tra il pittoricismo tanto caro a Metlicovitz e le più moderne decorazioni floreali Liberty: il bel volto di Iris infatti è inquadrato dai fiori.

Stilisticamente simile è il manifesto di piccole dimensioni preparato nel 1899 per la “Tosca” di Giacomo Puccini.

Stavolta l’eroina è attraente ma distaccata. Tosca è gelosa, è una donna da temere: anche lei nel finale si suiciderà, gettandosi dagli spalti di Castel Sant’Angelo, inseguita dai poliziotti e sconvolta per la morte del suo amato Mario. E Metlicovitz infatti la incornicia con le rose, ma anche con le spine.

I capelli rossi richiamano sicuramente la chioma di una delle più grandi attrici teatrali del XIX secolo, Sarah Bernhardt, celebre interprete di Tosca nel dramma del 1887 di Victorien Sardou.

Prima del debutto dell’opera di Puccini, Metlicovitz prepara le cartoline che devono anticipare quello che gli spettatori poi vedranno a teatro: come al solito scatta delle foto, si avvale dei bozzetti di altri illustratori (in questo caso Hohenstein), studia le immagini della Bernhardt.

Non improvvisa insomma, non lavora di fantasia: proprio come piace a Giulio Ricordi.

Ma è quando si discosta dalle regole di Casa Ricordi che spesso Metlicovitz conosce il successo.

Con la “Madama Butterfly” di Giacomo Puccini del 1904 secondo molti Metlicovitz compie un salto di qualità verso la modernità: e in questa occasione è palese anche quanto l’illustratore si immedesimi nel destino della povera Chōchō-san (e lo spettatore non può fare altrimenti).

La trama della celebre opera di Puccini la conoscono tutti: Chōchō-san, una povera fanciulla di Nagasaki caduta in disgrazia dopo la morte del padre e costretta a diventare una geisha, sposa l’ufficiale americano Pinkerton, ma viene in seguito abbandonata dal marito. Vittima di un amore tenace e appassionato, la fanciulla giapponese attende per anni il ritorno dell’amato. Quando Pinkerton finalmente ricompare (accompagnato dalla nuova sposa americana) per reclamare il figlio avuto da Chōchō-san, questa glielo affida, ma nella drammatica scena finale si colpisce al collo con un coltello ereditato dal padre. Pinkerton si reca nella stanza di Butterfly per chiederle scusa, ma ormai è troppo tardi.

Inizialmente Metlicovitz deve preparare solo le cartoline per l’opera di Puccini e per la loro realizzazione si ispira al volto di Rosina Storchio, una famosa interprete di Chōchō-san, oltre che alle foto delle precedenti edizioni della “Madama Butterfly”. Dopo una serie di vicissitudini (Puccini avrebbe voluto un altro cartellonista per il manifesto della “Madama Butterfly”), il lavoro viene affidato a Metlicovitz e il risultato sarà eccezionale.

Il modo in cui Metlicovitz rappresenta Chōchō-san è davvero singolare e moderno: la protagonista è ritratta di spalle, mentre guarda i ciliegi in fiore e – malinconica – attende il ritorno del marito. Tra le fronde degli alberi c’è anche il nido del pettirosso, che ci riporta alla mente il verso “o Butterfly piccina mogliettina, tornerò colle rose alla stagion serena, quando fa la nidiata il pettirosso”.

L’immagine della protagonista ritratta di spalle e che fissa un punto all’orizzonte ha talmente successo che Metlicovitz nel 1906 la riutilizzerà per un’altra sua celeberrima opera, il manifesto simbolo dell’Esposizione Internazionale di Milano, che celebra la realizzazione del Traforo del Sempione.

Il manifesto di “Melenis” di Riccardo Zandonai in realtà è esposto al Revoltella, ma lo cito qui perché rientra nella serie di cartelloni che testimoniano la collaborazione di Metlicovitz con l’ambiente teatrale e musicale.

Melenis, anche lei suicida, è ritratta da Metlicovitz mentre si avvia verso il proprio destino con un mazzo di rose rosse.

Il manifesto però è uno di quelli criticati dagli storici dell’arte, che lo considerano una copia mal riuscita di un lavoro di Marcello Dudovich: l’affascinante seduttrice dell’opera di Zandonai, che Dudo ha ritratto in modo molto sensuale, nel lavoro di Poldo (come al solito) risulterebbe fredda.

Anche l’altra eroina di Riccardo Zandonai, l’orgogliosa “Conchita”, se ritratta da Metlicovitz non sembra (come dovrebbe) una sensualissima femme fatale, bensì una ragazzina stizzita.

Un altro cartellone piuttosto celebre di Metlicovitz (curiosamente Art déco, secondo più di un critico) è quello del 1926 per la rappresentazione postuma alla Scala di Milano dell’incompiuta “Turandot” di Giacomo Puccini. E proprio la morte del grande compositore di Lucca segnerà l’inizio del declino per Metlicovitz per quanto riguarda i suoi lavori in ambito musicale e teatrale, ma non solo.

Qui il gelo dello sguardo della crudele principessa che scoprirà l’amore solo alla fine è giustificato dalla trama dell’opera: Turandot sembra cristallizzata nel momento in cui ordina il silenzio al suo popolo e con un gesto dà l’ordine al boia di giustiziare il principe Calaf; o in quello in cui appare sulla loggia imperiale per accettare la sfida di Calaf.

Alcuni lavori di Metlicovitz per l’operetta, definita da molti “lirica minore”, ma mai snobbata da Casa Ricordi, sono invece considerati notevoli.

“La polvere di Pirlimpinpin”, l’operetta leggera del 1907 di Costantino Lombardo tratta da una fiaba francese, è una coloratissima (e grandissima: quasi tre metri per oltre due) sfilata di maschere danzanti.

“Sogno d’un valzer”, cartellone piuttosto celebre di Metlicovitz del 1910 che reclamizza l’operetta di Oscar Straus, incarna finalmente (per i critici) le caratteristiche di rarefazione e contrasto di colori che il manifesto moderno dovrebbe avere (soprattutto per Vittorio Pica) e accontenta anche chi solitamente non vede sensualità nell’opera dell’illustratore di Casa Ricordi.

La sensualità infatti c’è ed è nello sguardo appassionato tra un uomo e una donna che danzano sulle note di un violino.

Il contrasto è nel rosso fuoco dell’abito della donna, nel colore scuro di quello dell’uomo e nel verde tenue del vestito della violinista.

La rarefazione estrema dell’immagine sta soprattutto nell’abito dell’uomo, che praticamente non si vede e si confonde con lo sfondo.

Una curiosità: come molte delle opere di Metlicovitz, l’illustrazione nasce da una fotografia dell’artista e della propria moglie.

Anche il musicista triestino Alberto Randegger nel 1916 ha l’onore di vedere reclamizzato il suo “Il ragno azzurro” tramite un manifesto di Metlicovitz.

Per il mondo dell’opera e dell’operetta Metlicovitz non produce solo manifesti di grande e piccolo formato, ma anche parecchia grafica cosiddetta “minore”: sia al Revoltella che a Palazzo Gopcevich possiamo ammirare diversi esempi di pochette di cartoline pubblicitarie e di calendari e cartoncini per la “Tosca”, la “Bohème”, la “Madama Butterfly”, la “Melenis” e le altre. In questi piccoli capolavori l’illustratore rappresenta scene cruciali delle opere, a cui a volte seguirà la realizzazione dei manifesti: spesso infatti le cartoline altro non sono che le miniature dei cartelloni.

Metlicovitz si applica molto anche nell’illustrare le copertine delle riviste musicali di Casa Ricordi, come quelle dei primi del Novecento per “Musica e musicisti”, poi diventato “Ars et Labor” (che era anche il motto di Giulio Ricordi), e il risultato è una felice sintesi di nostalgia del classicismo rinascimentale, influssi del simbolismo, amore per la pittura, ma anche interesse per il moderno Liberty.

La luce e il calore sono protagonisti di numerosi manifesti di Casa Ricordi.

La luce, stavolta non quella delle lampadine, ci sorprende in un altro celebre cartellone di Metlicovitz: quello per l’inaugurazione del Traforo ferroviario del Sempione, scelto per l’Esposizione Internazionale di Milano del 1906, in cui una locomotiva lanciata verso l’uscita di un tunnel (il nuovo traforo) porta a bordo le figure allegoriche del Progresso e della Scienza.

La scelta stilistica è inusuale e azzeccata, anche se Metlicovitz l’ha già utilizzata due anni prima nel manifesto della “Madama Butterfly”: i protagonisti sono ritratti di spalle e fissano un punto all’orizzonte.

Qui la scommessa riguarda anche il forte contrasto tra il buio della galleria e il rosso che illumina da dietro i due personaggi, ma anche l’inaspettato connubio tra la modernità della locomotiva e la classicità dei personaggi allegorici ritratti (Mercurio, col suo copricapo alato, simboleggia il Progresso proteso verso un futuro luminoso; la sua partner femminile personifica invece la Scienza o – secondo alcuni – l’Industria).

Un anno prima in una réclame per le Distillerie Italiane Metlicovitz non aveva convinto allo stesso modo, con questo quadretto di intimità domestica di fronte alla stufa Superator, in cui – come al solito – mancherebbe la sensualità tra i coniugi ritratti.

Quando sposa la sua bellissima Elvira, moglie adorata fino alla fine che in tutto gli darà due figli, Roberto e Leopolda, Metlicovitz inizia a trascorrere sempre più tempo nella villa acquistata in Brianza, a Ponte Lambro.

Ma non cessa di lavorare sulle réclame dei prodotti di uso quotidiano.

Nei primi anni Dieci del Novecento, alcuni manifesti reclamizzano il sapone Sunlight, che “conserva le flanelle e le biancherie morbide e fresche”: le protagoniste sono umili, di bassa estrazione sociale, quindi Metlicovitz si immedesima facilmente nella loro condizione e nell’insieme questi lavori per i critici sono piuttosto riusciti.

In questo manifesto che pubblicizza il “vero estratto di carne” Liebig, un uomo prende un toro letteralmente per le corna: i colori sono piatti e le forme stilizzate, quindi il risultato è moderno, nonostante i muscoli michelangioleschi che non piacciono agli studiosi dell’arte dell’affissione murale.

Molti cartellonisti in questi anni si occupano a più riprese del tema della velocità e quindi dell’automobile (l’apoteosi si avrà nell’arte futurista).

Per Metlicovitz invece uno dei pochi esempi è quello (piuttosto audace) del manifesto degli pneumatici Pirelli, in cui un’automobile è ritratta mentre sfreccia pericolosamente vicina al bordo di un baratro su una strada di montagna.

Il problema della carenza di sensualità ed eros nell’opera di Metlicovitz si ripresenta nel manifesto col casto brindisi di un’elegante – ma fredda – coppia per il Bitter Pastore di Milano.

Nel 1912, alla morte di Giulio Ricordi, i rapporti tra Leopoldo Metlicovitz e Casa Ricordi iniziano ad affievolirsi, anche se l’illustratore triestino rimarrà sempre fedele alla ditta milanese.

Metlicovitz continua a lavorare e ad impegnarsi, ma viene ancora criticato, anche se ad esempio in questo bellissimo manifesto per il Calzaturificio di Varese la figura femminile è un po’ meno casta del solito, ci rivolge uno sguardo piuttosto malizioso e – per mostrarci le scarpe – si scopre le caviglie.

Tra il 1912 e il 1917 circa Leopoldo Metlicovitz e gli altri cartellonisti italiani si dedicano soprattutto alla produzione di manifesti per l’industria cinematografica. Metlicovitz nello specifico si occupa quasi esclusivamente della réclame dei film della Itala Film del regista Giovanni Pastrone.

Il più famoso film pubblicizzato da Metlicovitz è di certo il kolossal “Cabiria”, per il quale egli crea perlomeno quattro manifesti che cristallizzano alcuni momenti cruciali del film (attribuirne la paternità a volte è complicato, perché Metlicovitz non firma tutti i lavori).

Il più famoso, considerato anche uno dei capolavori di Metlicovitz a causa della rarefazione delle forme, del pathos e delle lingue di fuoco quasi Liberty, è esposto a Palazzo Revoltella e ritrae il momento drammatico in cui la giovane Cabiria sta per essere sacrificata a Moloch.

L’opera di Giovanni Pastrone è un kolossal del muto di più di tre ore (nella versione originale) che nel 1914 sancisce una svolta decisiva nel cinema non solo italiano: per la prima volta si assiste all’operazione di lancio di un film. I costi per produrre “Cabiria” sono elevatissimi e massiccia è la réclame, che anticipa la prima del film (a Torino, allora capitale del cinema italiano) tramite i manifesti di Leopoldo Metlicovitz e Luigi Emilio Caldanzano, un altro cartellonista della Ricordi.

Si rivela vincente soprattutto la trovata pubblicitaria di far credere come dietro al film ci sia la mano nientemeno che di Gabriele D’Annunzio e lo stesso manifesto di Metlicovitz sta al gioco, mettendo in evidenza il nome del Vate. D’Annunzio in realtà ha curato solo le didascalie che introducono alcune scene del film, oltre ad aver creato i nomi dei protagonisti (Cabiria, Maciste).

Dopo gli intensi anni Venti, la produzione di manifesti si riduce sensibilmente per Metlicovitz. La critica sulla mancanza di sensualità delle sue opere però continua a perseguitarlo.

E’ del 1921 questo manifesto per l’acqua San Pellegrino.

In questi anni Metlicovitz sembra trovare piacere nella produzione di manifesti di stampo turistico, volti a pubblicizzare alcune località italiane: gli scorci incantevoli tradiscono il suo amore per la pittura, che l’illustratore nasconde sempre meno. Metlicovitz d’altro canto si trova a proprio agio quando deve seguire delle regole dettate da altri e questo avviene anche per la serie di manifesti turistici degli anni Venti: i partner Enit (l’Ente per il turismo) e Ferrovie dello Stato forniscono indicazioni ben precise ai cartellonisti su cosa rappresentare nei manifesti e impongono standard grafici fin dai bandi di assegnazione degli incarichi.

Degli anni Trenta è invece il manifesto per la Lotteria di Tripoli, un’iniziativa collegata ad un famoso Gran Premio automobilistico che si tiene nel deserto libico.

E’ degli stessi anni il divertente carrettino giocattolo per la pubblicità dei “copertoni impermeabili” Moretti, che testimonia l’amore di Metlicovitz per i bambini, palesato in molti suoi manifesti. In questo cartellone tra l’altro l’illustratore utilizza uno sfondo scuro per far spiccare ancora di più il prodotto reclamizzato.

Leopoldo Metlicovitz si ritira sempre più a lungo nella sua villa di Ponte Lambro (un ex monastero) e può finalmente dedicarsi alla propria famiglia e ad una dimensione più domestica, oltre che al ritorno alla natura, anche perché viene praticamente sfrattato dal proprio studio alla Ricordi.

Metlicovitz per tutta la vita ha anelato alla pittura “pura”, da cavalletto, la sua vera passione. E ora che Giulio Ricordi è morto da anni e che si sente sempre più estromesso da Casa Ricordi, è finalmente libero di potercisi dedicare al 100%.

Sono degli ultimi anni della sua vita quindi i vari ritratti dei familiari, di madonne e di paesaggi, ma anche alcuni autoritratti.

Ovviamente numerosi sono i ritratti dell’adorata Elvira, che purtroppo muore nel 1941.

Leopoldo Metlicovitz le sopravviverà solo per pochi anni e morirà il 19 ottobre del 1944 a Ponte Lambro.

Leopoldo Metlicovitz muore deluso per avere dato tanto alle Officine Grafiche Ricordi e all’arte della pubblica affissione, ma senza che la sua carriera decollasse veramente: anche se probabilmente Poldo non avrebbe saputo cosa farsene, di successo e mondanità, timido e umile com’era.

Consola che perlomeno nell’ultima parte della sua vita abbia potuto liberarsi del “fardello Ricordi” e si sia potuto dedicare al grande amore, la pittura. Infatti il motivo principale per cui la carriera di Leopoldo Metlicovitz non è mai decollata forse è da ricercarsi proprio nella sua devozione nei confronti di Giulio Ricordi.

Eternamente grato per l’affetto e la fiducia che da giovane gli sono stati accordati da Giulio Ricordi e sua moglie, che l’hanno accolto come un figlio, Metlicovitz per decenni rispetta le regole, è serio, pignolo ed affidabile, ha un enorme senso del dovere e sforna un prodotto qualitativamente perfetto per assecondare Giulio Ricordi.

Ma a causa di questo probabilmente perde in originalità e innovazione.

Ignorato dai critici se non quando si tratta di mettere in cattiva luce alcuni aspetti del suo lavoro, Metlicovitz per tutta la vita continua a dipingere in modo minuzioso e squisitamente italiano, a differenza dei suoi colleghi, che spesso scelgono di uniformarsi ai dettami del cartellonismo di Londra, Parigi e New York. Leopoldo si concede solo saltuariamente un po’ di semplificazione e rarefazione, il contrasto dei colori piatti, le ridondanze floreali Liberty.

Sono felice che almeno questa bellissima retrospettiva oggi renda un minimo giustizia a questo grande illustratore, cartellonista e pittore.

Perché per questo misconosciuto triestino trapiantato a Milano provo tenerezza, oltre che grandissima ammirazione: Leopoldo Metlicovitz a me piace proprio perché è evidente come conosca benissimo le linee guida dell’arte murale, il messaggio che questa deve trasmettere e la tecnica che si debba usare per farlo al meglio, il fine della pubblicità e del dover presentare dei prodotti con successo.

Metlicovitz insomma sa benissimo quali caratteristiche debba avere un cartellone “moderno”.

Ma il più delle volte decide comunque di mantenere il proprio stile (o di non tradire quello che per lui è diventato un secondo padre, Giulio Ricordi) e di non abbandonare del tutto il proprio amore per la pittura.

Come ho anticipato all’inizio dell’articolo, ai primi di aprile la mostra si sposterà al Museo Nazionale Collezione Salce di Treviso.

A chi dovesse comunque riuscire a visitare la retrospettiva a Trieste (mancano pochi giorni al termine), consiglio di dedicare un’intera giornata a Palazzo Revoltella e a Palazzo Gopcevich, perché al modico prezzo del biglietto cumulativo si possono scoprire due fondamentali realtà museali della mia città.

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