“Arte e Magia. Il fascino dell’esoterismo in Europa”: mostra al Palazzo Roverella di Rovigo

La mostra “Arte e Magia. Il fascino dell’esoterismo in Europa” testimonia l’attrattiva che le pratiche esoteriche hanno avuto sulla gente – e quindi sugli artisti – tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del Novecento nel Vecchio Continente.

Sono stata alla bella mostra del Palazzo Roverella di Rovigo all’inizio di novembre, ma per una serie di motivi ultimamente mi sono trovata impossibilitata ad aggiornare il blog con regolarità.

La mostra è iniziata a fine settembre ed è visitabile fino a domani: rimangono quindi poche ore per raggiungere Rovigo e godersi questa splendida raccolta di tele, sculture e oggetti raffiguranti streghe, demoni, sfingi, pratiche divinatorie, trasmutazioni alchemiche e sedute spiritiche.

Secondo una nota definizione dello studioso Antoine Faivre, gli elementi fondamentali affinché si possa parlare di “esoterismo” sono quattro: la teoria delle corrispondenze tra tutte le parti dell’universo visibile e invisibile; l’immagine della natura come essere vivente; il peso dell’immaginazione e di esseri come spiriti ed angeli; l’importanza della trasmutazione, che permette all’uomo di trasformarsi in qualcosa di superiore e diverso.

L’esoterismo per Faivre è quindi un metodo per accostarsi al sacro.

Per molti esoteristi invece si tratta di un vero e proprio insegnamento che permette agli iniziati di raggiungere un nucleo segreto, comune a tutte le religioni “tradizionali” (l’occultismo riguarderebbe invece la pratica, i poteri). Ai quattro elementi fondamentali di Faivre, vanno di conseguenza aggiunti la “pratica delle concordanze”, che vuole trovare denominatori comuni fra tutte le tradizioni, e il concetto della trasmissione ininterrotta nei secoli del sapere esoterico, ad esempio da maestro a discepolo.

Alla fine del XIX secolo movimenti culturali e artistici come quello del Simbolismo hanno dunque origine in un ritrovato interesse per l’esoterismo e per le dottrine ermetiche e più in generale nella voglia di scrutare nell’invisibile, nel mistero e nell’inconscio (non è un caso che la psicoanalisi sia nata proprio in questo periodo), proseguita poi per decenni, fino a gettare le basi per le grandi avanguardie del Novecento come l’Astrattismo e il Futurismo.

Le varie tappe del percorso espositivo dunque non ospitano solo opere simboliste raffiguranti i personaggi tipici dell’immaginario notturno, demoniaco e stregonesco, ma anche lavori astratti e futuristi degli inizi del Novecento, e non si soffermano soltanto sulle mode fin de siècle delle sedute spiritiche e dei circoli ermetici, ma pure sull’architettura del periodo preso in considerazione o sulla fondazione di comunità utopiche come quella svizzera di Monte Verità.

Sono infatti moltissimi i temi, le dottrine, le scoperte (anche scientifiche) che influenzano gli artisti prima simbolisti e poi astrattisti (e non solo) e la mostra di Palazzo Roverella ne analizza diversi: alcuni danno addirittura il nome ad intere sezioni del percorso espositivo, altri li indoviniamo mano a mano, incontrando le singole opere esposte.

In generale tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento si può parlare di una unanime voglia di ribellione degli artisti all’arte ufficiale ed accademica (considerata materialista e laica) e all’idea che l’arte debba imitare la realtà materiale e tangibile: l’invisibile, il misterioso, l’inconscio e il magico sono invece campi tutti da esplorare.

Gli artisti ormai vogliono acquisire la chiaroveggenza e accedere a dimensioni superiori di coscienza e di conoscenza. Essi vogliono rappresentare l’universo in un modo nuovo e sono stimolatissimi dalle teorie teosofiche di Rudolf Steiner e di Helena Petrovna Blavatsky e dai volumi pubblicati da altri due importanti teosofi, Annie Besant e Charles Webster Leadbeater, in cui – tra le altre cose – si parla di aura e di “indefinizione della forma”.

Come vedremo parlando delle singole opere esposte, moltissimi artisti ad un certo punto della propria carriera incontrano la teosofia e ne sono significativamente influenzati.

La teosofia e il pensiero secondo cui tutte le religioni deriverebbero da un’unica verità divina in effetti avviano una vera e propria moda culturale nella seconda metà dell’Ottocento in Europa e danno origine ad una fortissima ammirazione per l’India: Helena Petrovna Blavatsky, co-fondatrice della Società Teosofica (un’organizzazione internazionale che si propone di studiare e divulgare la teosofia, cioè la sapienza divina, e le scienze esoteriche, rivelando le radici orientali del pensiero ed estendendole all’Occidente), in “The Secret Doctrine“ afferma come l’antica saggezza le sia stata per l’appunto svelata dai mahatma indiani in un piano spirituale.

La teosofia, che – oltre ai vari culti orientali – fa suoi elementi cristiani ed ebraici e varie tematiche esoteriche ed occulte, innesca un ulteriore interesse negli artisti, cioè quello già citato per l’aura spirituale che il corpo fisico emette.

La teoria delle onde elettromagnetiche del fisico Heinrich Hertz e la scoperta dell’elettrone e di come anche l’atomo sia divisibile e composto a sua volta da particelle più piccole (e di quanto sia diversa la realtà, se la si osserva con un microscopio) non fanno che confermare la sopraccitata teoria teosofica della “indefinizione della forma”: la materia non ha confini definiti e c’è ancora moltissimo da esplorare.

Come anticipato, “Arte e Magia” è ospitata al Palazzo Roverella di Rovigo, sede nel 2018 di un’altra bellissima mostra, quella sulle Secessioni Europee.

Il catalogo è come sempre della Silvana Editoriale e acquistarlo è d’obbligo, se si vuole serbare un ricordo materiale della mostra, anche perché l’organizzazione di Palazzo Roverella si rivela puntualmente piuttosto severa: all’interno dell’edificio non si possono scattare fotografie (nemmeno col cellulare e senza flash) e il guardaroba è obbligatorio anche per borsette &CO.

A più di due mesi dalla visita in effetti risulta difficile ricostruire l’esatta successione delle opere, o il nome delle varie sale, non avendo potuto fare foto di queste e dei pannelli esplicativi.

Il curatore della mostra, Francesco Parisi, ha strutturato l’esposizione come un vero e proprio percorso iniziatico e le varie sezioni sembrano ricalcare alcune delle fasi che gli iniziati devono superare per raggiungere la verità occulta.

Non mi soffermerò troppo sui temi che stanno dietro al percorso espositivo, ma mi limiterò a parlare delle opere che considero più rappresentative e di quelle che mi hanno colpito maggiormente: do per scontato che chi si interessi ad una mostra di questo tipo sappia cosa sono un’aura, un famiglio o una seduta spiritica e conosca la storia dei Rosa+Croce o dei vari circoli esoterici, la differenza tra esoterismo e occultismo, la storia dell’iconografia stregonesca e demoniaca, le fasi della trasmutazione alchemica e così via.

La prima sezione della mostra, “Enigma, invito al silenzio”, è incentrata sulla discrezione che gli iniziati delle dottrine esoteriche devono mostrare in merito ai segreti appresi durante i riti.

In questa sezione molte opere riproducono significativamente un gesto antico, ma ripreso dal Simbolismo alla fine dell’Ottocento: quello del silenzio dell’egizio Horus, che invita i fedeli al controllo della parola, ripreso dai greci attraverso il segno di Arpocrate, il signum harpocraticum, anche questo mirato a coprire e a rispettare i misteri del divino e del soprannaturale.

Che la protagonista del dipinto o della scultura sia una sfinge o una donna velata, questa puntualmente poggia in modo discreto un dito sulle labbra dischiuse, o, in casi estremi, addirittura copre prepotentemente la bocca con entrambe le mani.

Il fine è il medesimo: invitarci a tacere sui segreti di cui verremo a conoscenza. Ma anche suggerirci di relegare momentaneamente la razionalità in un angolo della mente, così da riuscire a sentire la nostra parte inconscia.

Ne è un esempio il fiorentino Giorgio Kienerk con il celebre olio su tela del 1900 Il silenzio (parte di un trittico). Nel dipinto una donna seduta si copre la bocca con entrambe le mani. Ai suoi piedi un teschio, a circondarla un cerchio mistico: le influenze del Simbolismo ci sono tutte, assieme al richiamo all’occulto e all’aldilà. Anche se ha le spalle e il seno scoperti, la donna in effetti non emana sensualità, bensì timore, a causa dell’espressione del suo volto, dei colori freddi scelti dall’artista, del significato esoterico insito nell’opera.

Più discreto e tranquillizzante è il gesto de l’Ange d’espérance di Carlos Schwabe, protagonista dell’acquerello del 1895 dell’artista simbolista che della morte ha fatto il tema centrale della propria opera. Nonostante la morte per l’appunto permei l’acquerello, i grandi occhi dell’angelo (che ha le sembianze della moglie dell’artista) sono rassicuranti, anche se seri, come pure lo stesso gesto delle mani in preghiera davanti alle labbra. Il verde delle ali simboleggia speranza e immortalità.

Il silenzio e l’indicazione a prestare attenzione all’inconscio si possono suggerire in molti modi, non solo attraverso gesti così espliciti.

Il mistero della notte e una certa sacralità spiccano sicuramente nel piccolo pastello su carta Un voile di Louis Welden Hawkins (realizzato negli ultimi anni dell’Ottocento). La vicinanza dell’artista simbolista con i Preraffaelliti è evidente in questa sua opera, come in molte altre del pittore di Stoccarda: il volto di donna sognante ma composto, con occhi socchiusi e labbra serrate, illuminato dal basso (Hawkins cura sempre molto i giochi di luci ed ombre) e che si affaccia da dietro un velo blu trasparente e costellato di stelline bianche, richiama un passato forse immaginario, fuori dal tempo. La giovane ritratta più che una donna seducente e ammaliante sembra quasi una madonna… e non solo per il manto blu stellato.

Una madonna “dichiarata” è invece protagonista della litografia a colori del 1897 Invocation à la Madonne d’onyx vert di Jules Oury, meglio conosciuto come Marcel-Lenoir (artista che incontreremo anche nella sezione successiva), in cui una giovane donna (che interroga la pietra d’onice che tiene in mano) è allo stesso tempo la Vergine Maria, per l’appunto, simbolo di castità, purezza e luce, ma anche una veggente, una maga, un’iniziata, una sacerdotessa, emblema della notte, del buio, della morte e della comunicazione con gli spiriti. Anche il resto dell’opera trasuda molteplici significati e simboli, a cominciare dai gioielli indossati dalla donna (la pietra d’onice, un rosario, ma anche una collana con una civetta, animale foriero di morte) e dalle stelle a cinque punte, simbolo dell’androgino, che circondano la delicata e raccolta figura femminile.

Attrae per il proprio colore acceso e per il particolare studio della luce l’olio su tela del 1880 L’initiation di Charles Sellier, un pittore che in vita non viene troppo celebrato, per essere però in seguito considerato uno dei precursori del Simbolismo e dell’Art Nouveau. Si tratta di un’opera pressoché unica tra quelle del pittore francese (che solitamente dipinge soggetti di tutt’altro tipo), che dimostra come negli ultimi anni della propria vita Sellier si interessi alla disciplina esoterica: di certo la figura femminile circondata da angeli e con una stella a cinque punte che le brilla sulla sommità della testa (e qualcuno sulla fronte illuminata individua addirittura un triangolo massonico) è ammantata di mistero e testimonia la volontà degli artisti di questo periodo di manifestare attraverso i propri lavori il fuoco sacro e magico che alberga nella loro anima.

Tra le opere di questa sezione non si può non nominare La prière, visage, fleurs, un olio su tela del 1893 di Odilon Redon, il celebre pittore francese che con i propri lavori ispirerà nientemeno che Joris-Karl Huysmans e che è presente con più di un’opera alla mostra di Rovigo. Questa tela risale al periodo in cui Redon scopre i colori accesi ad olio: i fiori sono citati nel titolo dell’opera e il loro rosso è protagonista del quadro, assieme ad una figura femminile che – più che pregare – sembra dormire e quindi sognare e dare origine a visioni e fantasie.

Le sale dedicate al silenzio non ospitano solo opere a due dimensioni, ma anche statue in marmo, gres, gesso o bronzo e addirittura un singolare candelabro in stagno di Pierre-Félix Fix-Masseau.

Una piccola scultura in gres del 1897 che ci invita al silenzio col gesto tipico dei segreti iniziatici è Le Silence di Jean Dampt e Alexandre Bigot. L’indice poggiato sulla bocca chiusa ispira una sensazione di morte, suggerita anche dal dito scheletrico e dal volto serio del soggetto ritratto, che ne fanno quasi una scultura funeraria. Impossibile non ripensare all’originaria collocazione di questa piccola scultura, cioè un letto, e al dualismo sonno/morte tipico di scrittori come Charles Baudelaire e Robert de Montesquiou.

Pleureuse del francese Charles Gréber è una donna (piangente, come svela il titolo dell’opera) che nasconde il proprio volto tra le pieghe del mantello da cui è avvolta. In realtà la piccola scultura in gres del 1910 è uno scaldaletto, simile anche nella forma al tipico moine, che a sua volta prende il nome dall’usanza dei giovani monaci di scaldare i giacigli dei confratelli più anziani, prima che questi si ritirino per la notte. L’inquietante personaggio femminile è quindi una sintesi tra un oggetto comune che viene utilizzato di notte e una scultura che richiama il mistero della notte stessa.

Una sezione abbastanza curiosa è quella dedicata all’esoterismo nell’architettura tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del XX secolo: periodo durante il quale il Simbolismo riporta in auge un tipo di costruzione in cui la funzione simbolica è più importante di quella pratica.

E’ per questo che troviamo una miriade di simboli esoterici e di forti elementi simbolici anche nelle opere dei rappresentanti di grandi movimenti artistici come l’Arts and Crafts, il Bauhaus, l’Art Nouveau e di artisti come Klimt (complice l’interesse per Freud e la psicoanalisi) e come Gaudí e gli altri protagonisti del Modernismo catalano.

Per quanto concerne il percorso espositivo, è come se – dopo aver accolto l’invito a tacere sugli eventuali segreti iniziatici di cui verremo a conoscenza, nella prima sezione – ottenessimo finalmente il permesso di accedere al tempio (da un punto di vista metaforico e non, quindi anche ad un vero e proprio tempio fisico).

La sezione si sofferma sulla presenza di elementi allegorici, di simboli, di emblemi e di messaggi addirittura iniziatici nei progetti di numerosi edifici e monumenti celebrativi dell’epoca, molti dei quali presentati a bandi di concorso. In queste sale possiamo ammirare disegni, dipinti, progetti di templi, chiese, altari, monumenti commemorativi di personalità di spicco della letteratura e non solo; ma anche immagini di sacrifici e cerimonie pagane ambientati in templi costituiti da volte di alberi, più che di mattoni.

Ci svelano quindi una funzione più simbolica del previsto le sfingi e gli idoli del pittore ceco František Kupka, ma anche i progetti di alcuni architetti italiani, come quello per la risistemazione dell’area del sepolcro di Dante a Ravenna di Gustavo Giovannoni (sulla scia del celebre Goetheanum di Rudolf Steiner a Dornach, in Svizzera) e come quello per il monumento a Vittorio Emanuele II a Roma di Corinto Corinti.

Tra i progetti veri e propri di templi e così via, in questa sezione troviamo ad esempio Tempio copto ad Asmara, prospetto del 1913 del prolifico architetto romano Cesare Bazzani, che puntualmente introduce nelle proprie opere elementi esoterici e simboli massonici (qui riconoscibili solo nella pianta della chiesa, composta da un quadrato, un cerchio e un ottagono, che alludono rispettivamente al mondo terrestre, a quello celeste e a quello intermedio).

Il tempio dell’arte del 1906 del pittore livornese Benvenuto Benvenuti è invece un progetto di architettura ideale. I simboli occulti qui sono evidenti: sulle pareti del tempio sono disegnati croci uncinate, svastiche a pettine, archipendoli, nodi di Salomone e così via.

Come preannunciato, nella sezione dedicata all’architettura esoterica non mancano però esempi di opere in cui il tempio fisico è rappresentato da un altare, come ne Le Sacrifice di Félicien Rops del 1882, o sostituito da boschi, come nelle tele di Odilon Redon e di Paul Sérusier, e da ambienti raccolti e adatti all’officiazione di cerimonie pagane, magari al cospetto di Satana, come nell’acquaforte del 1904 di Marcel Roux, Humains offrant leurs cœurs à Satan.

Ne sono un esempio anche i lavori del pittore, incisore e scrittore ceco Josef Váchal dedicati a sabba e messe nere, in cui spesso l’interesse dell’artista per satanismo e paganesimo incontra degli elementi cristiani: i raduni demoniaci sono rappresentati come scene bibliche, in cui Satana appare come un Cristo crocifisso di fronte ai propri seguaci (in Sabat, un olio su tela del 1920), oppure officia la messa nera come un sacerdote coi paramenti cattolici (nella xilografia del 1911 Černá Mše).

Uno degli artisti più influenzati dal movimento teosofico è senza ombra di dubbio František Kupka. Il pittore ceco legge le opere di Rudolf Steiner e Madame Blavatsky e si interessa all’aura e alle materie esoteriche (passione che trasmetterà ad altri artisti, come ad esempio Marcel Duchamp e il fratello Jacques Villon). Questa acquatinta a colori, gouache e acquerello del 1903, Černý idol, trasmette paura dell’ignoto e dell’infinito, ma testimonia anche la moda fin de siècle lanciata dalla teosofia di rappresentare soggetti appartenenti all’arte egizia e babilonese o alle religioni orientali: da qui l’abbondanza di opere che raffigurano sfingi, idoli e così via, che approfondiremo in un’altra sezione. L’atmosfera del quadro è tetra: il colossale idolo nero del titolo sembra stagliarsi nella nebbia seduto su un trono, con le mani contratte come artigli e lo sguardo rivolto verso l’alto. In un paesaggio di acqua scura e desolazione, un uomo c’è, ma si intravede appena. A influenzare l’opera sicuramente contribuiscono la lettura di Edgar Allan Poe e della sua poesia “Dream-Land”, oltre che le esperienze di Kupka come medium in alcune sedute spiritiche.

In questa sezione salta all’occhio anche la litografia del 1896 Le monstre del già citato Jules Oury/Marcel-Lenoir, dominata da una figura femminile affascinante e lasciva, ma soprattutto crudele e terrificante, fatale ambasciatrice del demonio. La classica femme fatale tanto di moda in questo periodo, insomma, mentre celebra una messa nera, circondata da animali caratterizzati da fortissime connotazioni simboliche (che anticipano il tema della natura, a cui l’artista francese si dedicherà sempre di più negli ultimi anni della sua carriera): galli sia bianchi che neri, simboli rispettivamente di ciò che è buono e del diavolo; ma anche fiere e serpenti, gufi e aquile bicefale. I temi suggeriti in questa litografia sono molteplici: il potere della creazione, ma anche il risveglio e la reincarnazione.

Tra i tanti circoli esoterici che influenzano ed ispirano molti artisti della fine dell’Ottocento, un ruolo fondamentale lo ricopre l’Ordine dei Rosa+Croce di Sâr Péladan, a cui è dedicata un’intera sezione di “Arte e Magia”.

Nato e cresciuto in una famiglia appassionata di occultismo, nel 1888 Joséphin Péladan fonda l’Ordine ermetico, cristiano ed estetico della Rosa+Croce, la prima società segreta francese di fine Ottocento, assieme a Stanislas de Guaita e Gérard Encausse, sulla scia di svariate associazioni esoteriche che dal XVII secolo millantano una discendenza più o meno diretta con l’Ordine dei Rosa+Croce di Christian Rosenkreutz, un leggendario esoterista tedesco vissuto a cavallo tra il XIV e il XV secolo, ma probabilmente mai esistito, che a sua volta si ispira ad alcune scuole dell’antico Egitto.

I Rosa+Croce di Péladan si considerano successori dei Cavalieri Templari e hanno un motto: “ad rosam per crucem, ad crucem per rosam”. L’arte deve quindi riacquistare il senso dell’ideale e la chiesa cattolica il senso della bellezza, altrimenti la civiltà occidentale è destinata a morire.

Lo stesso Sâr Péladan, molto vicino all’ambiente cattolico, si ritiene un cavaliere idealista in lotta col proprio tempo, troppo materialista e laico. Suo obiettivo è restituire all’arte la propria sacralità e la propria misticità, perdute da tempo, e per farlo ha bisogno della religione e dell’esoterismo.

Nella prefazione del “Catalogo” del primo Salon de la Rose+Croix, Péladan scrive: “Artista, tu sei sacerdote: l’Arte è il grande mistero e quando il tuo sforzo realizza il capolavoro, un raggio divino scende come su un altare…”; “Artista, tu sei re: l’Arte è il vero impero…”; “Artista, tu sei mago: l’Arte è il grande miracolo e prova la nostra immortalità…”; e così via.

L’Arte insomma è Dio e deve suggerire l’aldilà e il mistero.

Joséphin Péladan è un personaggio carismatico e coltissimo ed è un forte sostenitore dell’opera d’arte totale: mira alla fusione dell’estetica e della misticità nella scultura e nella pittura, ma anche nella musica e nella letteratura, e a divenire egli stesso un pittore, un romanziere, un esteta, un filosofo, un occultista.

Appassionato delle opere di Richard Wagner, emulo del Des Esseintes di “À rebours” di Joris Karl Huysmans e discepolo di Barbey d’Aurevilly, la sua eccentricità giunge al culmine quando si autoconferisce il titolo di Sâr (“gran sacerdote” in lingua caldea, “re” in assiro), vantando una discendenza diretta coi re di Babilonia, e inizia a portare la barba come gli assiri e ad indossare abiti da mago.

Un altro modo in cui si fa chiamare (e si firma) Péladan è Sâr Mérodack Péladan: Mérodack è un personaggio da lui creato che compare in diversi suoi romanzi e il cui nome evoca Marduck, divinità mesopotamica con la quale l’esteta si identifica.

La battaglia di Péladan contro l’arte ufficiale ed accademica e i suoi Salons lo porta a voler “rovinare il realismo”, come dice lui stesso, fondando per l’appunto tra il 1892 e il 1897 un proprio salone artistico a Parigi, il Salon de la Rose+Croix: le esibizioni, molto chiacchierate, saranno in tutto sei. Fin dal primo Salon, inaugurato nel marzo del 1892, e nonostante la diffidenza iniziale, il successo è enorme: a causa delle opere esposte e degli artisti partecipanti, certamente, ma anche grazie al contorno confezionato da Péladan e ai costumi indossati dall’esoterista esteta e dai propri collaboratori, a una profusione di incensi e gigli, ai recital letterari e alla musica di Richard Wagner e Erik Satie, agli inviti d’onore arricchiti da stemmi e scritti in un linguaggio solenne e così via.

La rivendicazione ideologica del Salon di Sâr Péladan è da subito evidente nell’idealismo e nel Simbolismo sbattuti in faccia ai visitatori dagli artisti invitati a partecipare alla mostra: da Fernand Khnopff a Eugène Grasset, da Carlos Schwabe a Gaetano Previati, da Jean Dampt a Émile Bernard, da Ferdinand Hodler a Jan Toorop, da Alexandre Séon ad Alphonse Osbert.

A differenza dei Salons ufficiali, dove artisti diversissimi tra loro espongono insieme ciò che vogliono, i Salons de la Rose+Croix (precedendo le mostre delle avanguardie del Novecento) hanno un ideale e un manifesto, regole precise e ovviamente una forte dimensione esoterica. Non tutti gli artisti partecipanti sono esoteristi o occultisti e sposano le idee di Péladan, giudicate a volte troppo esoteriche, dottrinali e omologate agli orientamenti dettati dal Gran Maestro, ma sicuramente essi condividono la voglia di spiritualità, sono ostili al materialismo dell’arte accademica e vogliono restituirle il suo mistero e donarle una ritrovata sacralità.

Ma veniamo alle opere esposte in questa sezione.

Avverso ai ritratti dell’arte accademica, troppo materialisti e realisti, Sâr Péladan non disdegna però di farsi ritrarre da uno degli artisti simbolisti a lui più vicini: Alexandre Séon. Alla mostra di Palazzo Roverella è esposto il disegno preparatorio al ritratto del 1891 pubblicato qualche paragrafo qui sopra, Studio per “Il Sâr Péladan”. Il Gran Maestro dell’Ordine è rappresentato “come un iniziato dallo sguardo ipnotico rivolto verso l’invisibile” (da un articolo di Jean-David Jumeau-Lafond) e come i re assiri da cui afferma di discendere.

Lo stesso Sâr Péladan è presente alla mostra con alcune opere, tra cui un’edizione del 1886 de Le vice suprême (pubblicato per la prima volta nel 1884), il primo volume dell’etopea (una epopea etica) Décadence Latine, grande romanzo grazie al quale l’esoterista mira a diventare il “Balzac della decadenza”. Incentrato sulla lotta degli iniziati contro le forze materialiste contemporanee e costruito come un complesso di episodi romanzeschi, poesia, filosofia, erotismo e riflessioni esoteriche, anche in questa nuova edizione ha una prefazione di Jules Amédée Barbey d’Aurevilly e un’acquaforte di Félicien Rops come frontespizio.

Molte idee rosacrociane sono riassunte nel Manifesto per il primo Salon de la Rose+Croix, realizzato nel 1892 da Carlos Schwabe (che abbiamo già incontrato nella prima sezione della mostra). Nella grande litografia verticale una donna lasciva ed incatenata, evidentemente schiava della materia, osserva invidiosa altre due donne di aspetto ben differente che salgono la scalinata della spiritualità, costellata di gigli (classico simbolo rosacrociano): la Purezza e la Fede. Le due figure femminili, che diventano eteree mano a mano che salgono verso le stelle e l’iniziazione celeste, tengono in mano rispettivamente un giglio e un cuore fumante (simbolo mistico del Cielo). Non mancano nella rappresentazione altri fondamentali simboli dell’Ordine di Sâr Péladan: rose, croci e calici sanguinanti.

Un’opera che spicca in questa sezione e ci ammalia come tutti i quadri del suo autore è Les lèvres rouges. Questo disegno del 1897 di Fernand Khnopff è piuttosto famoso, anche se si rischia di confonderlo con altri splendidi ritratti femminili del pittore belga. La bellissima donna ritratta ha le labbra serrate e ci fissa con uno sguardo impenetrabile e misterioso: un vero e proprio marchio di fabbrica dei ritratti femminili di questo pittore tanto ammirato da Klimt, che – dopo aver esposto ai vari Salons de la Rose+Croix – nel 1898 ha quindi l’opportunità di partecipare anche alla prima mostra della Secessione viennese.

Della Rêverie en la Nuit di Alphonse Osbert, un olio su pannello del 1895, colpiscono il blu e l’azzurro che dominano l’intera opera. Il paesaggio notturno è popolato in cielo da una mezzaluna ed in terra da una figura solitaria e riflessiva e ci comunica uno stato d’animo meditativo e sognante proprio grazie a tutto questo blu, in accordo con gli ideali di Sâr Péladan, amico del pittore parigino, secondo il quale l’arte non deve rappresentare la realtà, bensì l’idea.

Decisamente più tenui i colori della matita blu su carta del 1920 di Jean Delville, L’Étoile d’Orient, in cui una stella a cinque punte separa l’immagine speculare di due figure androgine. In questo disegno il pittore e teosofo belga fa sue le idee di Sâr Péladan in merito all’ideale androgino che in futuro rigenererà il mondo ed è per questo che in mezzo alle due teste, rappresentate di profilo, posiziona la stella a cinque punte, simbolo celeste dell’Oriente, nel nome della quale gli uomini si riconcilieranno e si ritroveranno uniti e uguali. Delville, fondatore nel 1896 del Salon d’Art Idéaliste di Bruxelles, sulla scia dei Salons parigini de la Rose+Croix di Péladan, diventa caporedattore della rivista organo ufficiale dell’Ordine della Stella d’Oriente e utilizza questo disegno per la sua copertina.

La sezione successiva è dedicata ad un singolare movimento alternativo e anticonformista che – come il Salon de la Rose+Croix – vuole sfuggire alle regole del mondo borghese, uniformato e di massa.

In questa sala conosciamo infatti la comunità utopica Monte Verità, una “cooperativa individualista vegetabiliana” fondata nel 1901 sulle alture intorno ad Ascona (nel Cantone Ticino, nel sud della Svizzera) da alcuni giovani provenienti da paesi diversi.

Monte Verità si rivela ben presto un polo di attrazione per idealisti in cerca di una vita alternativa, frequentato più o meno assiduamente da personaggi celebri (da Hermann Hesse a Thomas Mann, da Carl Gustav Jung a Rudolf Steiner, da André Gide a D.H. Lawrence, da Paul Klee a Isadora Duncan; si mormora addirittura da Lenin e Trotzki) e visitato negli anni successivi anche da numerosi direttori o esponenti del Bauhaus come Gropius, Albers, Moholy-Nagy, Breuer e molti altri.

I giovani giunti ad Ascona praticano il nudismo, il veganesimo, lo yoga, l’amore libero, l’elioterapia e si battono per l’emancipazione della donna.

Ponendosi come l’”antitesi del nord urbanizzato e industrializzato”, auspicano il ritorno ai valori originari della natura, che adorano; influenzati dal socialismo utopico, dalla teosofia e dallo spiritualismo, rifiutano il mondo borghese e sfuggono alle regole di una società dominata dalla ragione, cercando “una terza via tra il blocco capitalista e quello comunista”, come recita ancora oggi il sito dedicato alla fondazione, tuttora esistente.

Tutto questo decenni prima del movimento hippy.

Monte Verità oggi è una fondazione, un museo e un centro congressuale, ma la mostra ovviamente si sofferma sul fascino che questa comunità ha su rosacrociani e occultisti all’inizio del Novecento e su alcuni degli artisti che in quegli anni soggiornano ad Ascona in modo più o meno continuativo, come Arthur Segal, Walter Helbig, Anna Iduna Zehnder e altri.

Un’opera che sembra riassumere la forma mentis e lo stile di vita di Monte Verità è Lichtgebet di Fidus, nome d’arte di Hugo Höppener, una litografia a colori del 1913. Il tema rappresentato è proposto più volte dal pittore di Lubecca nell’arco della propria carriera ed è quello della “riforma della vita” tedesca, improntata sulla fuga dall’industrializzazione capitalista e sulla riorganizzazione della vita, semplificata qui in un agognato ritorno alla natura, con un ragazzo nudo in cima ad un’altura che allarga le braccia verso il cielo. La “preghiera della luce” che dà il titolo all’opera non avviene in una chiesa e all’interno di una comunità, bensì all’aria aperta, in mezzo alla natura, ed è solitaria e scevra da regole. I capelli biondi del giovane e l’aquila in volo in basso a destra (che rimanda alla levitazione mistica) simboleggiano la predestinazione della razza germanica alla realizzazione dell'”uomo nuovo”.

Mystischer Kopf: Kopf einer jungen Frau, un olio su cartone riportato su tavola del 1918 di Alexej von Jawlensky, è una delle prime “teste mistiche” realizzate dal pittore russo naturalizzato tedesco dopo il suo trasferimento ad Ascona nel 1918. In questa colorata testa femminile dai grandi occhi a mandorla del pittore espressionista, messa di tre quarti e abbastanza realista, ma già lontana dai canoni dell’arte accademica, anche l’influenza del Fauvismo è forte. Tramite la forma e i colori delle sue opere, Jawlensky afferma di voler mostrare ciò che di divino alberga in lui e per farlo al meglio si prepara alla pittura pregando e meditando.

Chi si trasferisce a Monte Verità nel 1918, ma per rimanervi fino alla morte, è Marianne von Werefkin, la compagna di Jawlensky. Anche lei russa, anche lei proveniente dal Blaue Reiter, si sente da subito molto coinvolta nella vita della comunità utopica e questo lo ritroviamo nelle sue opere, semplici e che riflettono sentimenti comuni, ma anche visionarie e mistiche. Feux sacrés del 1919 ad esempio è un quadro dalla forte valenza erotica che è stato visto come simbolo di un’utopia addirittura androgina: il chiarore lunare si staglia esattamente al di sopra di un vulcano scuro, fallico, che cerca di penetrare il cielo. Sulla cima del vulcano ardono tre fuochi sacri rossi, mentre altri fuochi gialli più piccoli costellano le pendici del cono. Da una ferita aperta come una vagina sulle pareti del vulcano, fuoriesce un fiume biancastro. Questo dipinto così colorato e apparentemente semplicissimo, oltre al profondo significato sessuale, si rivela ulteriormente inquietante se si fa caso alle figure in basso: due spiriti a sinistra, una candela votiva a destra.

Entriamo quindi nelle sale della mostra che forse un po’ tutti aspettano fin dall’inizio del percorso espositivo, che ospitano una moltitudine di quadri (e non solo) con protagonisti streghe e vampiri, succubi e gufi, congreghe demoniache e maghe, diavoli e lamie.

La sezione “La notte e i suoi invitati” infatti ci fa conoscere un bel po’ di tipiche sentinelle della notte.

Sembra uno spirito della tradizione giapponese quello in primo piano nell’acquerello e oro su carta di Eugène Grasset Trois femmes et trois loups, un’opera del 1892 in cui sono raffigurati per l’appunto tre donne e tre lupi. In una foresta di alberi rosso sangue, non si capisce chi sfugga a cosa: se le donne volanti ai lupi, se i cacciatori (non visibili nel quadro, ma presenti sotto forma di un corno da caccia abbandonato a terra nella fuga) sia alle streghe che ai lupi. I lupi, neri come la notte, hanno occhi gialli e minacciosi. Le donne, chiaramente streghe, appaiono invece pallide e impaurite e fuggono librandosi nell’aria e tenendosi strette addosso le leggeri vesti. In realtà l’equilibrio tra donne e lupi indica come le streghe, pur spaventate, sappiano tenere testa agli animali e anzi siano capaci di sfruttarli come propri alleati, assieme alle altre forze della natura.

Di questo Gufo di Gabriele Gabrielli, un olio su tavola del 1917, al bookshop di Palazzo Roverella mi sono presa un magnete. Si tratta di uno dei soggetti preferiti dal pittore livornese morto suicida a venticinque anni (alla mostra ne vediamo anche un altro), che per la sua rappresentazione si ispira a Charles Baudelaire e al suo “Le fleurs du mal”. In questo quadro Gabrielli ritrae il gufo (custode della notte per eccellenza) nero e con gli occhi rossi, ma un’aura di luce fa stagliare il rapace notturno sull’oscurità che lo circonda.

Vampiri e spiriti e in generale la voglia di evocare nell’uomo l’orrore che domina la sua parte più inconscia affollano le opere di Jaroslav Panuška, presente in questa sezione con ben tre lavori, uno più spettrale dell’altro. In Upír, un dipinto ad olio del 1900, è rappresentato un vampiro tipico delle tradizioni dell’Europa dell’Est (i fan della serie tv “Hemlock Grove” sanno di cosa sto parlando): un succhiasangue più simile ad un animale che ad un uomo, che con i propri arti scheletrici ed allungati si protende verso una figura addormentata. L’unica luce in questa composizione verde e blu è data dagli occhi gialli dell’upír.

Sempre del 1900 è un altro quadro del pittore ceco, un olio su cartone intitolato Duch mrtvé matky, parte di una serie di opere che hanno come soggetto lo spirito della madre di Panuška, morta di tifo pochi anni prima. Nonostante si tratti dell’apparizione dello spirito della propria madre, il pittore lo rappresenta terrificante, magro e grigio, maligno e senza pace, affacciato alla finestra a scrutare il mondo dei vivi e la sua vecchia casa.

Presente alla mostra di Palazzo Roverella anche Auguste Rodin, con un piccolo bronzo del 1888: Le Succube. Il classico demone di aspetto femminile che seduce gli uomini per poi accoppiarsi con loro è rappresentato come una donna nuda inginocchiata a terra e con i lunghi capelli che non riescono a coprirle il seno prosperoso: la bocca socchiusa, la nudità e la posa della tipica femme fatale tanto cara ai Simbolisti rappresentano certamente uno schiaffo alla morale dell’epoca.

In questa sezione infine non può mancare il pipistrello, un’altra tipica creatura della notte. In Immagini della sera, una puntasecca del 1932, Raoul Dal Molin Ferenzona lo rappresenta gigantesco, mentre tira i lunghi capelli di una donna indifesa. La figura femminile nelle opere dell’incisore fiorentino a volte è rappresentata come una femme fatale in combutta col maligno, a volte come una fanciulla indifesa in balìa del maligno stesso.

Uno dei pezzi forti della sezione “Diavoli, streghe e maghi” e dell’intera mostra, e non solo per le sue dimensioni di tutto rispetto, che fanno sì che si faccia notare fin da lontano, mentre stiamo osservando tutt’altro, è Circe, un monumentale olio su tela del 1888 di Louis Chalon. Non è un caso che questo splendido quadro tre anni più tardi abbia costituito un modello per l’altrettanto meraviglioso capolavoro preraffaellita di John William Waterhouse, Circe offering the cup to Ulysses. La maga Circe, seduta su un trono, con il proprio splendido corpo nudo incanta e attrae verso di sè non solo Ulisse, ma anche noi visitatori della mostra. Le forme procaci ed eburnee di Circe e la luce dell’aureola solare alle sue spalle contrastano con i maiali frutto della sua magia e il buio in primo piano, al di qua dell’arco che separa i due ambienti e livelli.

A sorprenderci ancora di più nelle sale dedicate a streghe &CO. è La Sorcière di Luis Ricardo Faléro. L’olio su pergamena scelto come “volto” della mostra di Rovigo si rivela infatti essere un piccolo tamburello basco del 1882 di neanche 30 cm di diametro. Il pittore spagnolo amante di Parigi nella sua breve vita ritrarrà spesso donne nude in ambientazioni fantastiche e la sua strega anche in questo caso è bella e prosperosa: con i suoi capelli rossi e vaporosi sembra volare felice a cavallo della scopa, libera da preoccupazioni terrene e inutili pudori, in mezzo agli amici pipistrelli e alle nuvole. La scelta di utilizzare un tamburello come supporto per la scena ritratta non deve comunque stupire, in quanto lo stesso Manet qualche anno prima ha ceduto a questa moda dell’epoca.

Un’altra strega a cavallo di una scopa la ritroviamo nell’acquerello su carta del 1882 L’enlèvement di Félicien Rops. Protagonista dell’opera è il dualismo del male per eccellenza: il demonio e la donna, tradizionalmente sua vittima ma anche complice, volano in un groviglio di corpi nudi. La lotta violenta unisce, più che rendere avversari, la donna-strega ed il demonio che la rapisce e la violenta col bastone della sua stessa scopa, e diviene piuttosto amplesso ed estasi sessuale. L’acquerello è legato ad una delle incisioni della serie Les Sataniques, di cui abbiamo già visto un esempio (Le Sacrifice) nella sezione dedicata all’architettura esoterica.

Una strega italianissima è quella ritratta nel 1865 dal napoletano Michele Cammarano nel grande olio su tela che si intitola per l’appunto La strega. La donna corre sotto la pioggia, portando con sè erbe e fiori appena raccolti per i propri incantesimi, e la sua espressione questa volta appare dichiaratamente malvagia. Allo stesso tempo questa strega così umana è un urlo contro la superstizione e l’ignoranza della massa, che nella storia dell’uomo a più riprese ha ghettizzato e additato come strega un certo tipo di donna.

In questa sezione un’altra opera che si fa notare è il bellissimo busto del 1899-1900 in avorio, bronzo, opali e vetro di George Frampton, Lamia. A comunicarci l’identità del soggetto scolpito è solo il titolo dell’opera, perché l’artista britannico non rappresenta il personaggio mitologico come il classico mostro succhiasangue metà donna e metà animale, ma al contrario si ispira alla protagonista dell’omonimo poema epico di John Keats, ritraendola in un momento malinconico e ricco di sofferenza, cioè quello della consapevolezza della donna serpente di come stia per perdere il proprio innamorato, perché la sua vera identità è stata svelata e lei scomparirà, mentre l’amato Lycius è destinato a morire di dolore. Le labbra serrate e gli occhi quasi chiusi non tolgono nulla ai delicatissimi ed eburnei lineamenti di Lamia, come l’armatura nera non la fa apparire meno donna, nonostante la sua natura celata di rettile, in un risultato artistico che manifesta come non mai le caratteristiche a volte contrastanti di morte, seduzione, romanticismo, lussuria e fascino insite nella figura della femme fatale. Soprattutto dal vivo, è impossibile non notare la splendida spilla che Lamia porta sul petto, con un grande opale (pietra funebre e maledetta) racchiuso dalle radici-artiglio di una pianta.

Da orgogliosissima madre adottiva di un coniglio, non ho potuto non esaltarmi di fronte ad una delle rare rappresentazioni di un famiglio lapino: nell’immaginario collettivo infatti solitamente le streghe sono accompagnate da gatti neri, gufi, rospi, pipistrelli e così via. Pochi sanno come – soprattutto nei paesi nordici – anche lepri e conigli vengano scelti da sempre dalle streghe come assistenti e compagni di vita (affidati loro dal diavolo in persona). L’opera di cui mi sono infatuata è una delle litografie di Georges de Feure presenti alla mostra, nello specifico Aux copains du Diable au Corps, del 1893, in cui una donna nuda si scalda di fronte ad un fuoco, mentre davanti a lei un coniglio penzola sopra ad un pentolone. La giovane donna diventa in un attimo una strega, il lagomorfo il suo famiglio, il pentolone il suo calderone. Allo stesso tempo, la litografia vuole essere un omaggio al cabaret Le Diable au Corps di Bruxelles (simile al più celebre Le Chat Noir di Parigi) e fa riferimento al gioco di parole tipicamente francese che dà il nome al locale, “avere il diavolo in corpo” (in francese per l’appunto avoir le diable au corps), e all’allusione ad un “coniglio caldo” (chaud lapin), cioè una persona con un grande appetito sessuale. Elementi che vanno a braccetto con la nudità dell’avvenente giovane donna, con l’espressione lasciva dell’uomo anziano che la osserva dall’alto del manifesto e con i grandi fiori rossi e arancioni in primo piano. Il cabaret pubblica un proprio giornale e questa affichette di De Feure è uscita allegata all’edizione del 24 dicembre 1893.

Ecco rappresentati dei famigli per noi più tradizionali nell’olio su tela del 1899 La sorcière nue au chat del pittore Nabis Paul-Élie Ranson, cioè un gatto nero e dei rospi. A confermare che si tratti proprio di una strega in compagnia dei suoi demoni minori, sono una pianta di stramonio (noto anche come erba del diavolo o erba delle streghe, a causa delle sue proprietà allucinogene e non solo) e un uccello spennato. La donna ritratta probabilmente è la moglie di Paul-Élie Ranson, che spesso il pittore Nabis utilizza come modella per le sue opere più esoteriche.

Protagonista di diverse opere presenti in questa sezione è la Notte di Valpurga: nata come una festa propiziatoria primaverile (per i celti, Beltane; per i popoli dell’Europa meridionale, Calendimaggio), la notte tra il 30 aprile e il primo maggio è in seguito associata soprattutto a riti satanici e cerimonie sabbatiche e il “Faust” di Johann Wolfgang von Goethe in questo senso un contributo lo dà.

Tra le opere che al “Faust” di Goethe devono molto, c’è sicuramente l’acquaforte del 1897 di Albert Welti, Walpurgisnacht (Hexensabbat): un groviglio notturno e ricco di chiaroscuri di fumo, scope e streghe nude che fuggono da finestre e comignoli delle case per andare ad unirsi carnalmente coi demoni.

Ai sabba più in generale si ispira invece Paul Bürck per la realizzazione di Hexensabbat, una serie di tavole del 1922 dedicate al convegno delle streghe. Alla mostra di Rovigo è esposta la tavola numero VI, un’acquaforte e puntasecca con delle streghe nude e ordinate in un semicerchio che – posate le scope – adorano un’altra strega, sdraiata sopra un grosso maiale. Questa tavola mi ha fatto venire in mente Nataša che cavalca in volo Nikolaj Ivanovič, una volta trasformato in verro, dal meraviglioso “Il Maestro e Margherita” di Michail Afanas’evič Bulgàkov, che tra l’altro in dicembre ho visto al Rossetti di Trieste nell’allestimento del Teatro Stabile dell’Umbria, con Michele Riondino nel ruolo di Woland, il diavolo.

Dopo streghe, demoni e altre creature della notte la mostra si sofferma su spiriti e fantasmi nella sezione dedicata allo spiritismo.

Si inizia a parlare di mesmerismo, spiritismo e biomagnetismo a metà del XIX secolo e le sedute spiritiche diventano addirittura una moda tra le facoltose famiglie della borghesia fin de siècle, quindi anche i fantasmi e le loro manifestazioni riempiono le opere degli artisti simbolisti in questo periodo. La scrittura automatica, la fotografia spiritica, la trance e l’ipnosi fanno sì che l’artista stesso o i medium a lui vicini si rivelino un tramite tra gli spiriti e il mondo dei vivi.

Nella saletta dedicata allo spiritismo salta sicuramente all’occhio il Tavolo tripode tondo per sedute spiritiche di Ernesto Michahelles, detto Thayaht, realizzato nel 1930. Le mani immortalate nella catena medianica sono quelle dell’artista e dei suoi familiari. La svastica al centro del tavolo ovviamente non è quella nazista, bensì uno dei simboli più antichi della storia dell’uomo, derivante da quello del sole, e ha connotazioni positive: sta infatti ad indicare la vita, il moto del sole, l’eterna evoluzione. La svastica è contorniata dall’alfabeto, dai punti cardinali e – come già detto – dalle mani.

Sulla locandina della mostra “Arte e Magia” sono citati quattro artisti famosi, allo scopo di attirare a Rovigo anche i visitatori più improvvisati.

Uno dei grandi nomi pubblicizzati è quello di Edvard Munch, presente con una litografia del 1896, Urnen. Predominante nell’opera è l’associazione della donna col male: il celebre artista norvegese nell’eseguirla si è sicuramente ispirato a miti come quello del vaso di Pandora o di Giuditta e Oloferne.

Piuttosto piacevole è l’olio su tela del 1900 di Gabriel von Max, O Mensch gib Acht. Come in altre sue opere, il pittore teosofo, nonché membro della Psychologische Gesellschaft di Monaco, rappresenta qui uno spettro materializzato, che da un letto ci indica qualcosa di misterioso con un dito alzato. Nell’altra mano stringe l’orologio che porta al collo con una catena.

Collega di von Max alla Psychologische Gesellschaft è Albert von Keller, che in quegli anni mette addirittura il proprio appartamento a disposizione per sedute spiritiche ed esperimenti di psicocinesi con la giovane medium Lina Matzinger, ritratta tra l’altro in uno dei due dipinti di von Keller presenti alla mostra. Nell’olio su cartone del 1887 Zwischenfall bei einer Séance, invece, von Keller immortala un incidente verificatosi in quell’anno nel suo appartamento durante una seduta spiritica, quando una lampada, cadendo accidentalmente, ha mandato a fuoco la casa del pittore. Nel tumulto generale di chi cerca di spegnere le fiamme, sulla destra del quadro spicca l’inquietante figura della medium, che rimane seduta sulla propria poltrona, composta e immobile.

Veniamo alla curiosa sezione “Ex Oriente Lux”.

Il motto “Ex Oriente Lux” appare nel 1898 come epigrafe nel sottotitolo di “Sanctuaires d’Orient. Égypte; Grèce; Palestine”, un saggio di Édouard Schuré (scrittore e filosofo francese amico di Rudolf Steiner) in cui il concetto di Oriente è per l’appunto esteso geograficamente anche all’Egitto, all’India, alla Palestina e ad altri paesi.

Si è accennato all’inizio dell’articolo all’interesse spasmodico di fine Ottocento per l’India e i suoi miti e per la spiritualità orientale che influenza artisti e letterati: in quadri, incisioni e disegni di questo periodo sono evidenti – oltre all’ossessione per la tradizione indiana – il revival egiziano e il conseguente moltiplicarsi di sfingi nelle opere, o ad esempio l’attenzione per gli insegnamenti di Buddha.

“Ex Oriente Lux” nel senso quindi di una luce che arriva dall’Oriente e che fa scoppiare in Occidente il già analizzato interesse per la teosofia e per le mitologie e le filosofie orientali, ma anche per lo yoga, il tantrismo, il buddismo, con lo scopo di sfuggire una volta di più alla razionalità occidentale.

Odilon Redon è uno di quegli artisti simbolisti che non si riconosceranno mai in una determinata corrente esoterica: la sua visione dell’Oriente e di molti altri soggetti da lui esplorati, prevede infatti che l’umanità abbia prodotto infinite variazioni degli stessi temi spirituali. Redon, che in passato ha illustrato i racconti di Edgar Allan Poe e “Les fleurs du mal” di Charles Baudelaire, nel 1895 si cimenta (e non per la prima volta) con Gustave Flaubert e il suo “La Tentation de Saint-Antoine”. Nella litografia Le Buddha: On m’a mené dans les écoles. J’en savais plus que les docteurs (titolo ispirato dalle parole di Flaubert) Buddha appare a Sant’Antonio: eremita come lui, ha incontrato il demonio e ne è stato tentato, ma grazie al Dharma, all’Illuminazione, è andato oltre la sapienza aneddotica dei “dottori” e ha sconfitto il maligno. Nella litografia l’Illuminazione è rappresentata dal sole che estrae dal buio l’eremita: il nero quindi è simbolicamente penetrato dalla luce.

Oltre a Buddha, si è detto che ad ispirare parecchio gli artisti fin de siècle è l’interesse per la spiritualità induista. E Jean Delville non ne rimane immune. Nel pastello Studio per “Les Kumaras”, preparatorio dell’olio dello stesso periodo, Delville rappresenta per l’appunto i Kumara, i quattro figli di Brahmā secondo la mitologia indù, dediti allo studio e alla castità e per questo considerati saggi e vere e proprie icone per la Blavatsky e gli altri teosofi. Delville li vede come dei giovinetti puri e sorridenti, che cantano mantra volando all’interno di una fiamma (un omaggio all’arte indù).

Astarte, un olio su tavola del 1901 di Sasha Schneider, ritrae la dea fenicia e cananea della fertilità e della guerra come una Venere che esce dalle acque, mescolando quindi la tipica bellezza occidentale con quella più orientaleggiante, secondo la moda del periodo, ma trasformandola anche in una femme fatale pericolosa come la guerra a cui è consacrata. Le acque sono quelle scure e spumeggianti di un mare nordico e rimandano anche queste alla guerra. I capelli e il velo della donna (che tiene in braccio un grosso pesce) sono mossi dal vento e formano un arco, come la donna stessa, che sembra piegata controvento. L’onda creata dalla donna richiama le onde del mare, così la figura risulta perfettamente fusa nel paesaggio marino.

A trionfare in questa sezione sono però le sfingi delle opere ispirate dal revival egiziano di fine Ottocento. Una di queste è Le Sphinx et les dieux di Raoul Du Gardier, un olio su tela del 1893. Come altri artisti di questa sezione, Du Gardier si ispira a “La Tentation de Saint-Antoine” di Flaubert. La sfinge ha le ali spiegate e fissa l’orizzonte, trionfando sulle rovine delle civiltà greca, indiana, buddhista.

In Le Sphinx (Grande planche), una héliogravure ritoccata a vernice molle, utilizzata come frontespizio del volume “Les Diaboliques” di Jules-Amédée Barbey d’Aurevilly, Félicien Rops ritrae una figura femminile nuda stesa su una sfinge di pietra. La donna abbraccia la sfinge e alle spalle ha un diavolo in abito nero e monocolo. La gestazione dell’opera si rivela lunga e inizialmente Rops è indeciso se raffigurare una sfinge o una chimera. Alla fine opta per la sfinge: una creatura mezza umana e mezza animale, simbolo del sapere ermetico, dell’enigma e “dell’eterno femminino nella sua doppiezza infernale e celeste”, per citare il filosofo francese Édouard Schuré.

La forma è un segno, è il simbolo di qualcosa. La forma preesistente e primitiva, l’idea innata, l’archetipo stanno all’origine dell’esperienza artistica.

Le opere della sezione “Archetipi e forme ancestrali” di primo acchito sembrano stonare con quelle delle sale appena visitate, in generale più “figurative”.

Se si esplora a fondo la vita di molti artisti dell’epoca, anche di scuole come il Bauhaus, parecchio rappresentato in questa sezione, e quello che sta dietro alle loro opere astratte, si comprendono però appieno i lavori di questa parte della mostra.

Come ho sottolineato fin dall’inizio, in Europa il misticismo di fine Ottocento, il forte interesse per il sovrannaturale e per l’esoterismo e la passione per l’Oriente analizzata nella sezione precedente portano ad una forte rivoluzione culturale che non solo influenza gli artisti simbolisti, ma agli inizi del XX secolo getta le basi per le grandi avanguardie del Novecento come l’Astrattismo e il Futurismo.

Il rapporto tra la creazione dell’artista e l’esperienza mistica di quest’ultimo diviene centrale, come già abbiamo visto e ancora vedremo in altre sezioni. Le esperienze sensoriali, gli stati onirici e il sonnambulismo in primis sono manifestazioni dell’inconscio e vi si può accedere proprio tramite l’esperienza mistica. E molti artisti vi ricorreranno in modo più o meno assiduo e ponderato.

Soprattutto gli artisti futuristi si rivelano particolarmente interessati all’aura, a raggi ed emanazioni psichiche: Umberto Boccioni parla spesso di fluidi di potenza emanati dal corpo, di spiriti, di preveggenza telepatica.

Il secondo nome eccellente “strillato” dalla locandina di “Arte e Magia” è quello di Vasilij Kandinskij, presente alla mostra con più di un’opera. Il contributo dell’artista russo risulta in effetti fondamentale per capire appieno questa sezione della mostra, perché le sue opere illustrano perfettamente il concetto di archetipo nell’arte astratta. Osservando Rot in Spitzform, un acquerello e china su carta del 1925 realizzato poco prima della chiusura della sede di Weimar del Bauhaus (poi spostato a Dessau), in cui il pittore russo insegna, risulta impossibile non pensare al famoso Gelb-Rot-Blau, sempre di quell’anno. Nell’acquerello un triangolo rosso incontra con la punta un piccolo quadrato giallo; in alto domina un cerchio scuro. I colori primari in un modo o nell’altro quindi ci sono tutti. Il rosso, il giallo ed il blu (anche se quest’ultimo è mischiato ad altri colori) sono visti però in chiave teosofica: il rosso rappresenta la rabbia, il giallo la ragione, il blu il sentimento religioso. Il messaggio che sta dietro alla teoria dei colori è che l’inquietudine della società richieda un cambiamento radicale: la rabbia e l’aggressività del triangolo rosso prendono di mira il minuscolo quadrato giallo, cioè la ragione, piccola perché intimidita, mentre il cerchio scuro in alto cerca di stemperare l’agitazione che impazza nella parte bassa dell’acquerello. Non è un mistero che Kandinskij si interessi di occulto e inviti spesso altri artisti ad approndire i fenomeni ultrasensibili e le sensazioni che si possono percepire solo attraverso i sensi interiori, perché per lui l’artista può e deve dare forma e colore a queste vibrazioni percepite coi sensi non tradizionali. Kandinskij si interessa anche alle teorie di Rudolf Steiner e ipotizza uno schema delle aure.

In questa sezione troviamo diverse opere di Giacomo Balla, anche lui interessato alle pratiche spiritiche, alle aure, ai fluidi medianici, che trovano una rappresentazione nelle forme-pensiero futuriste. Balla conosce le teorie di Rudolf Steiner, ad esempio quelle sullo spirito nel regno vegetale. Questo si nota in Primaveriris, un olio su tela applicato su cartone del 1920, in cui il pittore torinese parte da un fiore, per l’appunto un iris, per rappresentare tutto ciò che questo e la primavera in generale possono comunicarci: colori, profumi, esuberanza della vita sono dipinti sotto forma di onde che si espandono come un seme che germoglia.

Anche la pittura di Jean-Jacques Gailliard è astratta ed è il risultato delle esperienze occultiste del pittore belga, che afferma di essere influenzato da Mercurio ed è seguace delle teorie di un precursore dello spiritismo vissuto a cavallo tra XVII e XVIII secolo, il filosofo, medium e mistico Emanuel Swedenborg. Un esempio dell’opera di Gailliard è il colorato olio su tela del 1922 Le regard du diable.

L’alchimia è degnamente rappresentata da alcune opere di Julius Evola (Giulio Cesare Andrea Evola). Il Vasetto Athanor del 1920-1921 in ceramica decorata e smaltata è l’unica ceramica conosciuta partorita dal filosofo e artista e infatti proviene dalla sua casa. Semplificando, l’athanor è il forno alchemico in cui la materia viene inserita per giungere alla creazione della pietra filosofale. Evola lo rappresenta tramite un vaso dai colori significativi e ovviamente non casuali: le fasce nere, bianche e rossastre rimandano rispettivamente alle tre fasi della Magnum Opus alchemica, nigredo, albedo e rubedo, necessarie per la realizzazione della pietra filosofale. C’è anche dell’oro, ad alludere alla trasmutazione della materia nel metallo prezioso. Anche la scelta della tecnica della decorazione della ceramica non è casuale: in quegli anni alcuni laboratori ceramici di Roma sono molto vicini all’ambiente esoterico.

Gli stessi colori e temi alchemici sono presenti nel Tavolo in legno verniciato a smalto del 1921-1925, sempre di Julius Evola, realizzato nel periodo Dada dell’artista romano. La trasformazione alchemica è esaurientemente descritta nel piano del tavolo: c’è il forno, l’athanor, in cui la materia viene trasmutata in oro; ci sono le tre fasce delle fasi nigredo, albedo e rubedo; e così via.

Come appare ormai chiaro, tra gli artisti dell’epoca è quasi obbligatorio conoscere le teorie di Rudolf Steiner e magari entrare in contatto con l’esoterista e teosofo austriaco. La medium svedese Hilma af Klint fa addirittura parte del cosiddetto “Gruppo del venerdì”, composto da alcune sensitive che nel corso delle loro riunioni trasformano il risultato dei propri pellegrinaggi sensoriali in disegni astratti. Ether Convolute #35 è un acquerello su carta del 1916 dell’artista scandinava e fa parte della più complessa Serie di Parsifal: tramite il tema floreale dell’iniziazione l’acquerello rappresenta “in via simbolica il percorso intrapreso dall’artista per il raggiungimento di una verità occulta superiore” (da un articolo di Manuel Barrese). Parsifal, il Cavaliere della Tavola Rotonda dal cuore puro che può vedere il Santo Graal, è spesso presente nelle opere degli artisti interessati dall’impatto del sovrannaturale sul proprio lavoro.

Anche Marcel Duchamp è presente con più di un’opera. L’artista francese (naturalizzato statunitense), che ha appreso da František Kupka le teorie di proiezione telepatica, mette in atto tecniche meccaniche da una parte e manuali dall’altra e sperimenta la realtà ottica assieme all’astrazione. La curiosa Stéreoscopie à la main è una riproduzione fotografica di un lavoro del 1918-1919 ed è contenuta nella Boîte del 1941, un vero e proprio museo monografico portatile in miniatura che – oltre ad un’opera unica e nuova – include decine di riproduzioni fotografiche di opere del passato di Duchamp. In questo caso su una fotografia stereoscopica di un paesaggio marino è disegnata a matita una piramide che si specchia verso il basso e sembra fluttuare al di sopra del mare.

Eccoci alla penultima sezione, “Psyche, cosmo e aura”, un ulteriore approfondimento delle teorie teosofiche analizzate lungo l’intero percorso espositivo.

L’olio su tela Weibliche Aktstudie di Georg Lührig è un classico esempio di rappresentazione dell’aura e del corpo eterico, risultato dell’influenza sul pittore delle idee di Rudolf Steiner (e non solo). Il nudo femminile in piedi che si copre il volto ricorda molto la Ève di Auguste Rodin. L’aura, un alone di luminosità, circonda il corpo materiale, ma l’opera vuole trasmettere il messaggio su come non ci sia separazione tra corpo fisico e corpo eterico.

Jozef Peeters, un artista fiammingo, nonché caricaturista di attualità politica, nonostante l’atmosfera dovuta all’imminente Prima guerra mondiale e all’invasione tedesca del Belgio, grazie alla pace interiore conquistata per merito della dottrina teosofica nel 1914 realizza una serie di ritratti, tra cui questo Theosofisch zelfportret (cioè “autoritratto teosofico”), nel quale disegna il proprio volto in diverse fasi: prima in matita, tracciando dei volumi geometrici; poi con l’acquerello, usando una gamma di grigi; infine col pastello, utilizzando colori caldi come il giallo e soprattutto l’arancione. Intorno alla testa si distingue chiaramente l’alone colorato del corpo eterico.

Luigi Russolo, che in altre opere rappresenta il corpo eterico come un vero e proprio secondo corpo, esterno a quello fisico, ne L’uomo che muore, un olio su compensato del 1941, si limita a ritrarre con un raggio la separazione dell’anima dalla persona nel momento della morte. L’opera probabilmente è il rifacimento di un lavoro del 1910, realizzato tre anni dopo la morte del padre dell’artista di Portogruaro: un episodio che certamente contribuisce a questa riflessione sulla morte, assieme agli studi esoterici che Russolo porta avanti da tempo.

Arnaldo Ginna, un futurista minore, ritiene che un pittore occulto debba trasformare in arte le forme viventi create dalle vibrazioni che derivano dal pensiero e dai sentimenti umani come odio, amore, paura, misticismo, sacrificio e così via. Influenzato pure lui dalla teosofia di Rudolf Steiner, il pittore ravennate giunge alla conclusione che le energie animiche possano essere percepite visivamente attraverso il colore, che di conseguenza deve trasmettere gli stati d’animo della persona. Ginna studia il colore e come rendere tutto ciò in pittura, anche con forme astratte. Il “ritratto animico” è il ritratto spirituale di una persona e Ginna ne realizza più d’uno. Il Ritratto animico della signorina L. M., un olio e pastelli su compensato del 1920, è un esempio di questi ritratti: non conosciamo la donna ritratta, ma i colori forti trasmettono la sua grande energia.

Romolo Romani, un artista piuttosto vicino ai futuristi, nel Ritratto di Dina Galli, realizzato a matita su carta telata nel 1908-1909, raffigura come un fantasma un’attrice piuttosto nota della scena milanese dell’epoca: la committente in effetti arriverà a rifiutare il ritratto, forse anche a causa del volto posizionato in alto a destra, un primo piano deformato dell’attrice con cui Romani vuole invece esprimere uno stato psichico. Non è la prima volta che l’artista milanese viene accusato di personalizzare un po’ troppo i ritratti che esegue con le proprie credenze occultistiche e influenze teosofiche.

Impossibile non riconoscere già da lontano le fattezze di uno degli esoteristi più importanti di sempre in questo olio su tela del 1917-1918 del pittore e professore di storia dell’arte Simeon Leon Engers “Kennedy”. Si tratta di uno degli psicocromi (cioè “dipinti dell’anima”) realizzati dal pittore olandese, che a Londra viene addirittura iniziato all’A∴A∴, un ordine magico fondato da Crowley, conosciuto anni prima a Parigi. In Edward Alexander (Aleister) Crowley il fondamentale occultista britannico della Golden Dawn e di Thelema è ritratto in posizione di meditazione e di trance. Nello sfondo arancione si intravede il triangolo nel cerchio, simbolo di armonia e congiunzione col divino.

Gli altri due grandi nomi dell’arte citati nella locandina della mostra di Rovigo sono quelli di Paul Klee e Piet Mondrian. Ma ancora una volta non dobbiamo scandalizzarci, dato che ormai abbiamo compreso la centralità nell’arte astratta di alcuni temi già cari al Simbolismo, l’interesse dei grandi maestri del Bauhaus per realtà come quella di Monte Verità e così via. Apparat für magnetische Behandlung der Pflanzen di Paul Klee è un curioso bozzetto preparatorio (di un disegno colorato) del 1921 di un “apparecchio per un trattamento magnetico delle piante”. Il disegno di Klee forse vuole ironizzare sullle idee del mesmerismo e sui presunti rimedi magnetoterapici, mai riconosciuti dalla medicina ufficiale, oltre che distanziarsi dai precetti di Johannes Itten, chiamato due anni prima ad insegnare al Bauhaus, chiarendo così il pensiero dell’artista, secondo il quale l’arte deve rimanere autonoma dalle ideologie scientifiche. Forse per questo il disegno è volutamente ambiguo: gli ingegni meccanici sono solo abbozzati e a stento si capisce di cosa si tratti (una lampada da chirurgo, dei magneti fissati su dei fluidi).

Rij van elf populieren in rood, geel, blauw en groen di Piet Mondrian è un olio su tela del 1908 e per chi è abituato alle opere mature del pittore olandese è una sorpresa, nonostante il dipinto si distacchi già dai precetti dell’arte accademica e ritragga il soggetto degli alberi che si specchiano in un fiume (molto amato dal primo Mondrian) in modo più mistico: Mondrian si interessa di occulto e di filosofie orientali da anni, ma in questo periodo aderisce pure alle dottrine teosofiche di Rudolf Steiner. La natura ritratta comunica spiritualità: la luce è ambigua (non si capisce se il momento della giornata rappresentato sia l’alba o il crepuscolo); l’orizzontale del terreno e del fiume si incrocia col verticale dei pioppi, che sembrano quasi raggi di energia scagliati verso il cielo; i colori primari (rosso, blu, giallo), citati già nel titolo dell’opera (assieme al verde), vengono esaltati e sono il preludio di come verranno utilizzati dall’artista olandese nella sua arte più matura, astratta e conosciuta, quella delle linee nere e dei quadrati colorati.

A Palazzo Roverella è esposta anche la serie completa di sei litografie del ciclo grafico Misteri del 1914-1915 di Alberto Martini: Sogno, Nascita, Follia, Amore, Morte e Infinito. Morte ad esempio è un teschio nero ma dagli occhi ancora vivi: sia dalle orbite degli occhi, che dalla bocca, escono ampi fasci di luce.

Gli ultimi spazi espositivi meritano da soli l’acquisto del biglietto della mostra: sono infatti dedicati ad una eccezionale collezione di incisioni e illustrazioni a sfondo esoterico e occulto, molte ancora più preziose in quanto provenienti da collezioni private.

Faccio davvero fatica a citare solo alcuni dei volumi o delle illustrazioni che ho potuto ammirare nelle teche, quindi ne scelgo una manciata letteralmente a caso.

Nella sezione “Ex Oriente Lux” abbiamo già incontrato Le Sphinx, il frontespizio del volume “Les Diaboliques” di Jules-Amédée Barbey d’Aurevilly ad opera di Félicien Rops. L’incisore belga tanto caro a Joséphin Péladan, grazie alla mediazione di quest’ultimo illustra la nuova edizione delle sei scabrose novelle con un totale di nove tavole, in cui il concetto di femme fatale è portato all’estremo. Le novelle vengono condannate per oltraggio alla pubblica morale quando vengono pubblicate per la prima volta, ma anche le immagini di Rops di questa nuova edizione (diaboliche quanto il titolo del volume) suscitano scalpore.

Félicien Rops inizialmente dovrebbe occuparsi anche del frontespizio di Istar di Joséphin Péladan, come già è accaduto per molte opere del pittore, letterato, esteta e occultista francese, ma alcuni malintesi tra i due li allontanano e così il frontespizio viene affidato a Fernand Khnopff, che tra l’altro Péladan apprezza molto. L’arte di Khnopff in questo caso si fa piuttosto ardita: una bellissima donna nuda e molto sensuale (la modella Clémence Couve, amica di Péladan), con gli occhi e le labbra socchiusi, è ritratta abbandonata quasi in estasi mentre viene profanata da una testa di Medusa. Anche in questo caso dunque il frontespizio non è meno scabroso dell’opera che deve illustrare.

Il romanzo Là-bas di Joris-Karl Huysmans suscita addirittura più scandalo di un’altra celebre opera dello stesso autore, “À rebours”, in quanto parla di messe nere e di satanismo, sia del passato che dell’epoca in cui vive il celebre scrittore parigino. Per il passato e la magia nel Medioevo Huysmans si documenta nelle biblioteche, recuperando grimori e carteggi; per la magia moderna si immerge nella realtà della sua epoca, frequentando circoli occultistici, partecipando a sedute spiritiche e probabilmente anche ad una vera e propria messa nera (alla fine del 1890). Dopo la pubblicazione del romanzo, per anni Huysmans si sentirà in pericolo di vita e perseguitato dai rosacrociani e finirà per convertirsi al cattolicesimo. L’edizione presente alla mostra è del 1912, quindi postuma, ed è illustrata da Henry Chapront, considerato il degno erede di Rops e un perfetto interprete dei vizi descritti da Huysmans.

Il Calendrier magique del 1896 è concepito da Austin de Croze e illustrato dal litografo Manuel Orazi. In esso troviamo sia parti scritte che illustrazioni: in ogni mese abbondano i riferimenti a trasmutazioni alchemiche, tarocchi, oroscopi, riti, formule, messe nere, incantesimi e fasi lunari, così come le immagini di streghe, diavoli, sabba, pentagrammi e dei vari animali notturni. Il maligno e l’immaginario occulto sono quasi spettacolarizzati: de Croze, scrittore di enogastronomia, e Orazi, illustratore attratto da sempre dai temi morbosi, forse vogliono ironizzare sull’ambiente esoterico parigino fin de siècle e provocarlo.

Ritroviamo il litografo Manuel Orazi nella copertina col diavolo caprone sotto alla luna piena di Messes noires del 12 dicembre 1903, in un numero monografico de L’Assiette au Beurre, con didascalie di Jehan-Rictus e illustrazioni di diversi autori, tra cui per l’appunto Orazi. Anche in questa rivista si prende di mira la Parigi esoterica fin de siècle.

Molte litografie e illustrazioni presenti a Rovigo sono di artisti francesi o fanno da frontespizio a romanzi di autori francesi, ma non si possono non notare le splendide edizioni del Der Golem di Gustav Meyrink, con le illustrazioni di Hugo Steiner-Prag; dei Racconti straordinari di Edgar Allan Poe, con le illustrazioni del futurista Arnaldo Ginna; o del Die Familie des Vampirs di Aleksej Konstantinovič Tolstoj, illustrato da Rudolph Schlichter. Giusto per citare qualche nome eccellente.

A Rovigo mi sarebbe piaciuto vedere più materiale sugli altri ordini ermetici nati alla fine dell’Ottocento, Golden Dawn in primis, sulla massoneria o su figure come quella di Aleister Crowley, ma in generale la mostra “Arte e Magia” mi ha colpito moltissimo: considerato l’argomento trattato, temevo l’invasione di un pubblico attirato soprattutto dalla bella locandina col tamburello di Luis Ricardo Faléro o dalle parole “magia” e “esoterismo”, ma così non è stato.

Vediamo quindi quali soprese ci riserverà il bel palazzo rovigotto nel 2019, dato che almeno una volta all’anno mi attira a Rovigo per un ottimo motivo.

Last but not least: a chi dovesse recarsi al Palazzo Roverella di Rovigo per questa o altre mostre, consiglio anche la visita dell’esposizione permanente della Pinacoteca e della sezione archeologica, sempre comprese nel biglietto d’entrata delle mostre temporanee.

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