“Dionysus”: il nuovo album dei Dead Can Dance

Non ci giro minimamente intorno: “Dionysus”, l’ultimo album dei Dead Can Dance, non mi è piaciuto particolarmente.

Dopo la meravigliosa parentesi di sei anni fa con la risurrezione di “Anastasis”, il disco è un ritorno alla world music, cioè al periodo dei Dead Can Dance che non apprezzo e che mi ha reso estraneo per anni il duo che invece quasi trent’anni fa ha sancito il mio ingresso nel mondo goth (assieme a Cure, Christian Death, Virgin Prunes e in seguito molti altri).

“Dionysus” è sicuramente uno di quegli album che si apprezzano maggiormente ad un ennesimo ascolto, ma non posso non ripensare a quando ho sentito il primo brano di “Anastasis”, Children of the sun, e soprattutto l’intero “Ark” di Brendan Perry, e me ne sono innamorata fin dalle prime note.

In questo album mancano brani come il sopraccitato Children of the sun, Amnesia, Opium, Return of the she-king, All in good time, ma anche come una qualsiasi tra le otto tracce di “Ark” (album solista di Brendan del 2010).

Mi rendo conto di aver citato quasi esclusivamente canzoni con Brendan alla voce, ma non è un mistero che sia il mio cantante preferito e che i brani che maggiormente amo dei DCD siano quelli in cui canta lui: A passage in time, In power we entrust the love advocated, Enigma of the absolute, Severance, East of Eden, Ullyses, Fortune presents gifts not according to the Book, Fortune, The trial, In the kingdom of the blind the one-eyed are kings, Wild in the woods… e potrei citarne tanti altri.

Con qualche eccezione per i brani strumentali, che spesso parlano e comunicano più di quelli cantati, come The fatal impact, Saltarello e così via.

Detto questo, l’unico brano di “Dionysus” che mi abbia colpito al primo ascolto è The mountain, il singolo uscito prima dell’album vero e proprio.

I ricami della voce di Brendan sulla stoffa intessuta dagli strumenti suonati da lui, Lisa e gli altri hanno scandito la mia vita dai quindici anni in poi. Nella mia personale storia musicale, la perfezione è rappresentata da alcuni brani dei DCD. Recentemente, dalle otto tracce di “Ark”.

E’ normale che gli album dei Dead Can Dance siano diversi dagli album solisti di Lisa e Brendan: il contributo che i due apportano al progetto Dead Can Dance a volte non è quello che ci aspetteremmo e spesso non ha nulla a che fare con le sensazioni che Brendan e Lisa ci donano singolarmente.

Ci tengo a sottolinearlo sin dall’inizio: si sta comunque parlando dei Dead Can Dance, quindi di un prodotto qualitativamente impeccabile sotto ogni punto di vista.

Brendan Perry e Lisa Gerrard hanno le voci forse più belle del panorama musicale mondiale, suonano in modo fenomenale, sprizzano cultura da tutti i pori, si avvalgono di musicisti eccezionali quanto e più di loro e sfornano puntualmente testi e musiche semplicemente perfetti.

“Dionysus” è quindi un album eccezionale, come ogni loro lavoro.

Ma un ritorno alla world music per una vecchia fan darkettona come me non può che essere una brutta notizia, soprattutto in vista del loro prossimo tour e delle date italiane al Teatro degli Arcimboldi di Milano a fine maggio 2019, di cui ho già acquistato i biglietti.

Sono cosciente di come un progetto musicale debba evolversi. E l’eterna ricerca è alla base della carriera dei Dead Can Dance e della vita privata di Brendan e Lisa.

I Dead Can Dance si sono sempre distinti per l’originalità, la complessità e il peso culturale del proprio lavoro: le loro opere sono giustamente non etichettabili fin dagli esordi.

Ciò che mi ha disturbato durante l’ascolto di “Dionysus” è la sensazione che comunque in questa occasione si sia ritornati indietro. Alla world music e alle sonorità esclusivamente etniche, per l’appunto.

Non ho intenzione di sparare a zero su un disco (in un modo che peraltro reputo sempre scarsamente intelligente ed utile) solo perché non rientra all’interno dei confini oscuri che tanto mi appartengono: qualsiasi mia opinione in merito a “Dionysus” esula dall’incredibile discorso culturale alla base di questo racconto sulla divinità greca, dalla profondità di testi e musiche dei DCD e dalla qualità indiscussa di qualsiasi creatura concepiscano.

Chi i Dead Can Dance li ha conosciuti con “Spiritchaser”, tanto per fare un esempio, non potrà che trovare questo lavoro sensazionale.

Il nuovo album di Lisa e Brendan è dedicato alla figura di Dioniso, la divinità della mitologia greca che forse ha avuto più successo nella cultura contemporanea, nonostante l’oppressione perpetrata in ogni epoca dai culti religiosi ufficiali (nella Roma repubblicana, come nel credo cattolico o islamico, in tempi più recenti).

La grande popolarità di Dioniso nell’epoca moderna (nello specifico, nell’ambiente del teatro) si deve sicuramente a Friedrich Nietzsche e alla sua opera “La nascita della tragedia”, in cui il filosofo tedesco – per spiegare i due impulsi dai quali è nata la tragedia attica – contrappone Dioniso e la sfrenatezza degli istinti vitali e primordiali (e di conseguenza della musica) al fratello Apollo, dio del sole e della luce, sinonimo di forma, bellezza ed armonia. Nascono così i principi estetici del dionisiaco e dell’apollineo.

“Dionysus” rappresenta le “diverse sfaccettature del mito e del culto” della divinità greca, recita un comunicato stampa.

Identificato con Bacco nella mitologia romana e con Fufluns in quella etrusca, per rimanere sulla nostra penisola, ma presente in molte altre culture, Dioniso è il dio dai tanti nomi, dalle incerte origini, dalla vita errante.

Inizialmente collegato alla linfa vitale della vegetazione, poi è divenuto dio del vino, dell’ebbrezza e dell’estasi, ma anche della spensieratezza e del benessere, della liberazione dei sensi e della corrente della vita.

Dioniso simboleggia da sempre la naturale evasione dalla natura e condizione umana.

Nato da Zeus e da una mortale, Semele (anche se tante sono le teorie sulla nascita della divinità), a differenza di altri infatti l’immortalità deve conquistarsela. Inoltre è considerato estraneo alla condizione umana anche solo perché esterno alla nazione ellenica: spesso i greci lo hanno additato come un dio straniero, nello specifico frigio, tracio, egiziano.

Ha una corte composta da baccanti, sileni e satiri invasati ed ebbri, che cercano l’evasione tramite la possessione del dio, il raggiungimento di stati psicotici e la partecipazione a riti orgiastici. Il suo culto è connesso con molti rituali d’iniziazione tribale che presso i primitivi segnano il passaggio all’età adulta: ancora un tipico esempio di superamento della crisi della natura umana.

Dioniso è una divinità spesso contradditoria.

E’ per metà umano, ma l’elemento animale in lui è molto forte: anche se civilizzato, l’uomo ha in sé una parte primitiva ed insopprimibile, che può riemergere violentemente soprattutto se egli ha tentato di reprimerla.

Dioniso è androgino.

Spesso è pietoso e misericordioso, ma capita che sia anche lo spietato istigatore delle baccanti, che ad esempio per lui uccidono Orfeo durante un’orgia (secondo una delle innumerevoli versioni della morte di Orfeo).

Rappresentato dagli artisti di ogni epoca a volte come un ragazzino di bell’aspetto o come un essere effeminato ed accidioso, altre come un vecchio (questo soprattutto nelle raffigurazioni più arcaiche), spesso è adornato da tralci e grappoli d’uva e da rami di alcuni tipi di edera (contenenti sostanze psicotrope) e accompagnato da tigri, caproni, leoni.

Di frequente è vestito con pelli di leopardo o pantera e brandisce il sacro Tirso, un bastone nodoso avvolto dall’edera e dai pampini di vite e sormontato da una pigna (da cui secondo Euripide scaturisce del miele: un evidente simbolo fallico), oppure si abbevera al kantharos, una coppa con due alte anse verticali.

Lo accompagna il tiaso, un corteo composto dalle menadi (o baccanti: le donne da lui invasate) e da animali e satiri, sileni, centauri.

Ma torniamo all’album uscito il 2 novembre, che – essendo un prodotto dei DCD – merita sicuramente l’ascolto. E che piacerà a moltissimi, ne sono certa… ma questo è ciò che l’ultima fatica di Brendan e Lisa ha trasmesso a me.

Sto parlando sin dall’inizio di album, ma in realtà si tratta di un ep, costituito da due maxi tracce (per la precisione, da due Atti), composte a loro volta rispettivamente da tre e quattro brani.

E probabilmente il sette, numero magico per eccellenza, non è stato scelto a caso.

La copertina di “Dionysus” può trarre in inganno: vi è rappresentata una maschera ricoperta di perline coloratissime tipica della popolazione degli Huichol della Sierra Madre, la catena montuosa del Messico in cui cresce il peyote, il cactus allucinogeno da cui si estrae una sostanza pcicotropa, la mescalina, un alcaloide utilizzato da sempre dai nativi americani per motivi curativi, ma anche per riti sciamanici e viaggi lunghi ore, allo scopo di comunicare col mondo degli spiriti e di sperimentare visioni psichedeliche ed alternative.

In realtà la copertina non ci fa affatto andare fuori tema: in “Dionysus” i DCD vogliono celebrare – oltre alla divinità che dà il nome all’album – proprio “l’espansione della mente, l’unità dell’umanità e la sua connessione con la Terra”, come recita un altro comunicato stampa.

Il collegamento tra gli Huichol, consumatori di peyote, e le baccanti, donne invasate da Dioniso, di conseguenza non è fuori posto.

La maschera degli Huichol si confonde con quella indossata durante i riti dionisiaci. E – a pochi mesi dal tour – il manufatto della copertina di “Dionysus” chiude un cerchio inaugurato nel 1984 da un’altra maschera, quella del primo album dei DCD.

La Grecia, la cultura ellenica, la figura di Dioniso e i riti da lui ispirati sono solo il punto di partenza per esplorazioni musicali e tematiche ben più complesse: il disco prende spunto dal culto di Dioniso per raccontare la tradizione delle feste del raccolto e della primavera, presente in ogni parte del mondo.

Perché la musica è dappertutto e assume diverse forme: in punti lontanissimi del pianeta troviamo tradizioni simili tra loro.

“Dionysus” collega quindi il folklore europeo ai riti sudamericani e così via.

Quando si ascolta un album dei Dead Can Dance, è d’obbligo soffermarsi anche sugli strumenti musicali di volta in volta utilizzati dal duo e soprattutto da Brendan Perry.

L’amore di Brendan per gli strumenti più singolari e provenienti dalle più disparate parti del mondo è noto: anche stavolta il musicista di Whitechapel si è documentato a lungo e ha raccolto una vasta gamma di strumentazioni folk che rimandano a diverse tradizioni musicali.

In quest’ultimo album il lavoro di Brendan è ancora più significativo, in quanto gli strumenti sono tutti suonati da lui.

Tra quelli utilizzati in “Dionysus”, si possono annoverare la gadulka (uno strumento a corde bulgaro che non può non riportarci alla mente la collaborazione, anche recente, di Lisa Gerrard col coro femminile Le Mystère des Voix Bulgares); la zurna (uno strumento a fiato solitamente suonato nel Nord Africa, in Asia occidentale e in generale nelle regioni centrali dell’Eurasia, soprattutto nei paesi musulmani); il salterio ad arco (uno strumento musicale a corde simile ad una cetra triangolare, che per l’appunto si suona con un arco); il berimbau (uno strumento musicale a corda percossa che si utilizza soprattutto in Brasile e nella capoeira); la balalaika (il noto strumento a corde tipico della Russia); il davul (un grande ed antichissimo tamburo nato in Medio Oriente); il daf (un tamburo a cornice, anche questo antichissimo e proveniente dal Medio Oriente); i flauti aztechi; il saz (un liuto di origine curda); e così via.

Al di là di ciò che i DCD hanno creato in studio di registrazione, in “Dionysus” è stata utilizzata parecchio anche la tecnica del field recording: si sono raccolte registrazioni di onde del mare, di belati di greggi e di canti di pastori di capre svizzeri, di cinguettii e di richiami di uccelli messicani, di ronzii di alveari, di cantilene e di canti di comunità in festa. Tutti suoni mirati a far immedesimare ancora di più l’ascoltatore e che ci riportano alle ambientazioni tipiche delle varie feste del raccolto in ogni angolo del pianeta.

Sulle registrazioni campestri e sugli strumenti, ovviamente si levano le voci di Brendan e Lisa, che in questo album si incontrano in più occasioni, a differenza di molti brani del passato. Il loro intreccio richiama significativamente la sessualità a volte ambigua del dio androgino.

In “Dionysus” i brani non sono entità distinte: si tratta di un vero e proprio racconto, una finestra sulla vita del dio e sulle peculiarità del suo culto.

Se ci si addentra nelle singole tracce e si presta attenzione a cosa vi si celi, si apprezza maggiormente l’ultima fatica dei DCD, al di là dei gusti personali che – come ho detto sin dall’inizio – altrimenti mi avrebbero fatto riporre l’ep sullo scaffale dopo il primo ascolto.

L’Atto I in teoria è più gioioso del secondo: più strumentale che cantato, è un tripudio di gadulka, zurna, satiri e baccanti.

Nel primo brano dell’ep, Sea borne, Dioniso giunge da est su una nave: ha lasciato le terre d’Oriente, dove ha sconfitto re e amazzoni, per rientrare in Grecia vittorioso e soprattutto immortale, dopo essere stato addirittura rapito dai pirati.

Dioniso, spesso considerato dai greci un dio straniero, come ho già accennato, qui appare come una divinità che viene da fuori e protegge i diversi, coloro che non fanno parte della società convenzionale, tutto ciò che di irrazionale vi è al mondo.

Le onde del mare introducono quello che si svilupperà come un intreccio di zurna (dal suono allegro e quasi isterico), di percussioni ritmate e di gadulka, ma anche di toni oscuri e cupi che ricordano tantissimo i Popol Vuh di Brüder des Schattens (le note iniziali della semplicemente perfetta intro del “Nosferatu” del 1979 di Werner Herzog, con Klaus Kinski, Isabelle Adjani e Bruno Ganz, tanto per intenderci).

Questo è il brano che inizialmente mi ha fatto esclamare: -“NO! Sono tornati alla world music! NO, NO e ancora NO!”, ma che all’ennesimo ascolto ha finito per piacermi.

In Liberator of minds si celebra il lato sciamanico della divinità, che grazie ai propri riti libera la mente degli uomini dai vincoli della società: nei misteri dionisiaci, come nei riti sciamanici di ogni epoca e di ogni parte del mondo, si utilizzano allucinogeni che espandono la mente, allo scopo di comunicare col mondo degli spiriti e di avere visioni.

Qui la gadulka bulgara si mescola ai flauti aztechi, agli altri strumenti a corda, alle percussioni in un piacevole crescendo orientaleggiante.

Strettamente legato al brano precedente, Dance of the bacchantes si sofferma sul ruolo delle donne seguaci di Dioniso, che abbandonano case e doveri domestici per partecipare – invasate – a processioni e danze in onore della divinità.

Su balalaika e berimbau, urli berberi del Nord Africa, versi animaleschi e belati di greggi, tamburi e flauti, cantilene e canti di comunità in festa, si innalza la voce di Lisa Gerrard.

I canti rituali e i cori delle menadi invasate da Dioniso sono evocati dagli urli delle donne berbere.

L’Atto II in teoria è più meditativo e – a differenza dell’Atto I – ospita brani in cui le voci di Lisa e Brendan sono ben identificabili.

The mountain, l’unico singolo uscito prima dell’ep vero e proprio, ci trasporta sul monte Nysa (situato nell’odierna Beozia, in Grecia), dove Dioniso ha trascorso la fanciullezza ed è stato allevato dal centauro Chirone. Da quest’ultimo Dioniso ha appreso canti e danze che in futuro ispireranno i misteri dionisiaci.

La canzone ricorda un po’ i brani più vecchi dei Dead Can Dance. La voce calda di Brendan si intreccia a quella squillante di Lisa.

I belati delle greggi e i loro campanelli ci conducono alla traccia successiva, The invocation, in cui il coro e Lisa Gerrard chiamano Dioniso per officiare alla cerimonia del raccolto.

Il ritmo cadenzato di daf e davul in questo brano ci parla del ruolo di Dioniso nella nascita del teatro e della tragedia greca, sottolineato – come ho già accennato – da Nietzsche.

In The forest, la foresta selvaggia e mistica sede dei baccanali è evocata dai canti degli uccelli, dalla calda e cantilenante voce di Brendan e dagli strumenti a corde.

L’invito ad abbandonare mondanità e cose materiali per tornare ad uno stato primitivo richiama decisamente la tradizione induista e il Vanaprastha, il ritiro nella foresta.

Il ruolo di Dioniso di psicopompo, cioè di guida delle anime dei defunti nell’Aldilà, ispira l’ultimo brano dell’ep, Psychopomp.

Il duetto di Brendan e Lisa e i canti degli uccelli ci scortano verso l’Ade (e verso la fine dell’album) col ritmo cadenzato delle percussioni.

Conservo un ricordo bellissimo e struggente dell’ultimo live dei Dead Can Dance a cui ho partecipato, quello al Teatro Geox di Padova nel giugno del 2013: concerto in occasione del quale ho avuto gli occhi lucidi dall’inizio alla fine.

Il tour che – come accennato all’inizio – nel 2019 porterà il duo anglo-australiano anche in Italia, e per la precisione a Milano, è stato chiamato “A celebration – Life & works 1980-2019” e questo per una volta mi fa ben sperare in una valanga di brani vecchi, magari solo intercalati dalle nuove tracce.

“Dionysus” alla fine può quindi essere considerato non solo la celebrazione della divinità della religione greca, ma anche quella della carriera dei DCD, e da questo punto di vista è comprensibile che Brendan e Lisa ci abbiano regalato un album così folk e festoso.

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